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(SEGUE DALLA 1a PARTE)
A onor del vero, discograficamente parlando neanche gli Iron Maiden se la sono cavata egregiamente negli ultimi tempi. Dire che le più recenti release non siano all’altezza di Seventh Son Of A Seventh Son o di Powerslave è un eufemismo bello e buono per evitare di essere crudeli nei confronti di una band che nessun metallaro può permettersi di dileggiare (in mia presenza è tassativamente vietato parlare male dei Maiden, se non volete mettervi nei guai; ma siccome mi è capitato ancora di recente di litigare furiosamente su questo argomento, prendo atto che l’ignoranza al mondo è ancora tanta). Ciò che mantiene la ferrea Vergine su standard altissimi nel mondo metallico è la dimensione live che oggi siamo qui a celebrare religiosamente in questa unica data italiana del Maiden England Tour.
A differenza della compagine di MegaDave, che in alcune occasioni (non in questa) ha purtroppo offerto performance un po’ scialbe, i Maiden dal vivo non hanno mai perso un colpo: hanno la potenza distruttiva di una divisione di panzer e la grandeur visiva del più mastodontico dei kolossal hollywoodiani. Merito, ça va sans dire, dell’immancabile mascotte Eddie e delle centinaia di scenografie, tutte maniacalmente curate, che lo vedono protagonista. Il simpatico zombie è ormai un’icona autonoma dalla band, oggetto di culto e dominatore incontrastato del merchandising maideniano e non. La teatralità è un tratto distintivo di questi titani dell’heavy, e permea il palco sin dal momento in cui, sulle note introduttive di Doctor Doctor, iniziano a scorrere sui megaschermi le immagini di un’ipotetica fine del mondo con tanto di massiccio scioglimento dei ghiacciai dei Poli (evidentemente Dave Mustaine non è l’unico ad essere rimasto fortemente impressionato dalla lettura dell’Apocalisse di San Giovanni).
Quello che buona parte dei discografici di oggi evidentemente fatica a capire, è che per fare qualcosa che spacchi non basta l’immagine: ci vuole gente che sul palco sappia suonare, certo, ma anche questo non è abbastanza. No, là sopra ci vogliono tipi che diano tutto quello che hanno e suonino come se fosse l’ultima cosa che fanno in vita loro; che non si limitino a starci, sopra quel palco, ma se lo divorino, lo violentino, lo facciano a pezzi, lo mettano a ferro e fuoco. E questo è esattamente ciò che fanno gli Iron Maiden. Fiamme e giochi pirotecnici compresi.
Scream for me, Milano. E Milano risponde, reattiva e adorante. Bruce Dickinson è qualcosa di incontenibile: ha una voce che trascende le umane facoltà, e nonostante la usi senza risparmiarsi ha ancora gambe e polmoni per correre l’equivalente di una dozzina di maratone su e giù per il palco, cambiarsi d’abito e copricapo, con destrezza da fotomodello professionista, tra un brano e l’altro, e arrampicarsi a mani nude sui tralicci della scenografia. Mancava solo che, forte del suo brevetto di pilota, atterrasse direttamente nell’Arena Fiera ai comandi di un F16, e poi stasera le aveva fatte tutte. A giudicare dalle facce paonazze e dalle panze grondanti che si segnalano sotto il palco già dopo Moonchild, buona parte dei presenti firmerebbe un patto col diavolo pur di arrivare alla sua età in una forma anche solo lontanamente paragonabile. Bruce è un figo, fine della discussione. L’unico che può competere con lui in fatto di pose plastiche e agilità è, manco a dirlo, il ginnico chitarrista cinquantaseienne Janick Gers, che da solo mette in piedi uno spettacolo a sé stante di acrobatica, saltelli, stretching estremo e balli di gruppo. Ruba inevitabilmente un po’ la scena ai più sobri Dave Murray e Adrian Smith, e a Nicko McBrain fagocitato da una batteria mostruosa. E’ dappertutto, non c’è un angolo del palco da dove non te lo vedi balzare fuori all’improvviso, sembra abbia i pattini da quanto è scattante e inesauribile. Ma non c’è coreografia che tenga, l’anima dei Maiden è sempre lui: il grintoso bassista Steve Harris, corpulento e grezzo all’apparenza, in realtà musicista di grande perizia e vasta cultura, autore anche di buona parte dei testi mitologici e folkloristici della band. E osservando lui, le sue possenti falcate su e giù per il palco, le smorfie da cattivone (adorabili, anche se probabilmente non è questa la sua intenzione, anzi forse proprio per questo) di cui gratifica generosamente il pubblico, in un attimo di sublime illuminazione, di quelli che quando ti capitano te li ricordi per un bel pezzo, capisci perché la tua band preferita, a differenza dell’amante che ti tradisce, della squadra che perde o della macchina che ti lascia a piedi, ben difficilmente potrà deluderti... Perché qualunque cosa suonino, per te è sempre il massimo, energia pura, sangue che scorre nelle vene, vita vissuta. I chilometri e le notti insonni che hai macinato per andare ai concerti. I primi dischi veramente tuoi che hai tenuto tra le mani, cercando di sentire la consistenza della copertina o i solchi del vinile sotto le dita, prima di deciderti ad infilarli sotto la puntina o nel mangianastri. Le cazzate con gli amici, le risate, le lacrime. Le volte che hai urlato a squarciagola quelle canzoni, con buona pace di chiunque avesse la sventura di poterti sentire in quel momento. E se la band è questa qua, dove sono tutti numeri uno, e non c’è un leader che eclissi tutti gli altri membri perché così è stato deciso a tavolino dal businessman di turno, il legame si fa ancora più speciale. Sia che ti lasci travolgere dalle galoppate di Can I Play With Madness, 2 Minutes To Midnight, The Number Of The Beast o Run To The Hills, o avvolgere dalle atmosphere un po’ dark di Afraid To Shoot Strangers; che tu ti arrenda al coro monumentale di Wasted Years o ti faccia trascinare dai riff di Seventh Son Of A Seventh Son; e sì, anche se risuona immensa Fear Of The Dark, che lo sappiamo tutti quello che se ne dice, che è la canzone meno “da Maiden” del loro repertorio, ma tanto alla fine la cantano tutti, e infatti in scaletta non manca mai; non importa, c’è sempre magia in tutto questo. E dopo un encore da urlo – Aces High, The Evil That Men Do e Running Free – ne hai un altro pezzetto da portare a casa, da custodire gelosamente accanto ai CD, ai poster, ai biglietti d’ingresso stropicciati, alla maglietta consunta salvata a più riprese dai proditori tentativi materni di gettarla in pattumiera.
Ed è qui, abbandonando l’Arena Fiera dopo quest’altro capitolo da aggiungere alla mia biografia di pellegrina da festival, che mi coglie un altro di quei momenti “Via di Damasco” e ripercorro col fast forward tutto quello che mi ha portato fino a qui. Sotto il palco dei Maiden, e non è la prima volta, ma anche a chiacchierare di musica e particelle di Dio con quelle stesse persone che per anni ho ammirato e adorato da lontano o in video, e che per molti restano tali, idoli bidimensionali dietro uno schermo di celluloide. Ripenso ai primi tempi, a quando ho iniziato a scrivere di musica solo per capire se qualcun altro al mondo la “sentisse”, non solo ascoltasse, così visceralmente e persino dolorosamente, come la sento io. A volte mi sento una privilegiata, ma in effetti non lo sono. Sono solo una a cui il metal ha salvato la vita, credetemi, lo posso dire senza esagerare. Una ragazza fortunata (per inciso, ex nerd sfigata, marchiata scuola natural durante dal nomignolo di Mercoledì Addams) che ha creduto fermamente che nulla fosse impossibile.
SETLIST:
01. Moonchild 02. Can I Play with Madness 03. The Prisoner 04. 2 Minutes to Midnight 05. Afraid to Shoot Strangers 06. The Trooper 07. The Number of the Beast 08. Phantom of the Opera 09. Run to the Hills 10. Wasted Years 11. Seventh Son of a Seventh Son 12. The Clairvoyant 13. Fear of the Dark 14. Iron Maiden —– 15. Aces High 16. The Evil That Men Do 17. Running Free
Articolo del
14/06/2013 -
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