|
Il progetto è ambizioso, l’attesa è tanta e palpabile al punto che un pubblico di circa 2.800 persone riempie la Sala di Santa Cecilia dell’Auditorium di Roma. La cosa è ancora più sorprendente se si pensa alla contemporanea presenza dei Rolling Stones in concerto dal vivo allo Stadio Olimpico. Lou Reed presenta a Roma, per la prima volta dal vivo, “Berlin” l’album del 1973, il secondo della sua carriera solista, dopo la splendida avventura con i Velvet Underground e con Andy Warhol. Su un disco come “Berlin” Lou Reed aveva fatto convergere all’epoca tutti i suoi desideri e i suoi studi di natura mitteleuropea, ne era venuta fuori una sorta di rock opera o meglio un concept album rigoroso, complesso e difficile, che per ovvie ragioni non fu mai possibile eseguire dal vivo. Ci prova adesso, a trentaquattro anni di distanza, con l’aiuto di un fantastico ensemble, composto da trenta elementi. Sul palco interagiscono una sezione di archi e fiati diretta da Hal Willner con Steve Bernstein e Jane Scarpantoni, il New London Children’s Choir e la tour band di Lou Reed, in realtà un supergruppo composto da un team di collaboratori e di vecchi amici che rispondono ai nomi di Steve Hunter, alla chitarra elettrica (lo stesso delle registrazioni originarie di “Berlin”) di Fernando Saunders, al basso, di Rob Wasserman, al contrabbasso, di Rupert Christie, alle tastiere, di Tony Smith, alla batteria, e di Sharon Jones, al controcanto. La scenografia è stata disegnata ed allestita da Julian Schnabel, pittore, sceneggiatore e regista americano (celebre per “Basquiat”, il film su Andy Warhol) che ha realizzato per l’occasione anche le immagini di un video che accompagna la performance dell’artista newyorchese. Un vero e proprio progetto multimediale quindi, ambizioso ed emozionante, che vuole restituire dignità artistica a quei testi introspettivi, a quegli squarci di vita quotidiana che ritraevano persone sconvolte da incontri sbagliati, da fallimenti personali, all’interno di Berlino, una città divisa. Si comincia, echi di una festa di compleanno, un vociare di bambini, il suono nitido e puro di un pianoforte: è “Berlin”, la title track, rarefatta e distante, che apre il racconto. Segue una versione davvero encomiabile di “Lady Day”, che lascia spazio sia agli interventi dell’orchestra che della band che si soffermano su ricami drammatici e sontuosi. La voce malinconica e cupa di Lou Reed intona “Men Of Good Fortune”, gli arrangiamenti sono inizialmente ridotti al minimo, interviene poi la chitarra di Steve Hunter, sporca e cattiva come la ricordavamo, a dettare i tempi, e sferzate metalliche e dure scandiscono le liriche di uno dei brani più belli partoriti dalla musica Rock. In contemporanea vengono proiettate sul palco le immagini di un filmato che sintetizza i temi delle singole canzoni, Lou spesso lo indica e se ne serve come continuo supporto. “Caroline Says” è una rock ballad di grande levatura, e in questa sua prima versione dal vivo rivela un crescendo energetico e corale che ha una presa immediata sul pubblico presente in sala. Intriganti, sospettose e malevoli le noti di “How Do You Think It Feels”, ben disegnate dall’apporto delle chitarre di Lou e di Hunter, in un’atmosfera carica di attesa che la voce di Lou Reed rende ancora più intensa. Il basso ventrale di Fernand Saunders diventa protagonista su “Oh Jim”, una ballata acustica, inquieta ed oscura, su come può far male un amore. E’ il momento della seconda parte di “Caroline Says”, Lou si accompagna alla chitarra acustica, la sua voce è ferma, sospesa nel vuoto, gelida e distante, come quella di chi cerca di coprire una sofferenza immane. Quando canta “she is not afraid to die/ all of her friends call her Alaska” un brivido scende lungo la schiena di molti spettatori, e non si tratta solo della commozione davanti ad un ricordo, non è solo perché trenta anni fa eravamo più giovani, no c’è dell’altro: è come rileggere un libro dopo tanti anni, riscoprirlo più bello di prima, più interessante ed ancora molto attuale. Come può una semplice canzone convogliare così tante emozioni? Eppure Lou Reed ci riesce, senza neanche bisogno delle traduzioni in italiano che il buon Paolo Zaccagnini aveva preparato per lo spettacolo. Su “The Kids”, la drammatica storia di una madre a cui i servizi sociali vogliono togliere i figli, intervengono ancora i bambini del Coro londinese e le loro voci, disperate e sofferte, si integrano perfettamente con il resto, grazie all’orchestrazione live di un grande Hal Willner. Incantevoli poi la delicata “The Bed” e le note raffinate e sapienti di “Sad Song” il brano che, con una splendida riedizione per coro ed orchestra, conclude la rivisitazione live del disco. Finita la rappresentazione dell’opera “Berlin”, Lou si concede una pausa, per poi tornare sul palco decisamente più disteso e ci regala una divertente versione di “Sweet Jane”, il brano con cui era solito aprire tutti i suoi concerti diversi anni fa. Splendida anche “Satellite Of Love”, dapprima lasciata all’interpretazione dell’amico Fernando Saunders, ripresa poi in prima persona ed infine lasciata interamente al coro di bambini, sommersi da lacrime e applausi. Non poteva mancare un classico come “Walk On The Wild Side”, sulle note del quale Lou Reed saluta un pubblico caloroso ed entusiasta che nel frattempo aveva abbandonato le poltrone per circondarlo di affetto sotto palco. Lui, ruvido e tagliente, come sempre, ma anche affascinante e carismatico come nessuno, ricambia con un sorriso. Non sono più quei tempi, la sua vita ora è diversa, l’incontro con Laurie Anderson, la riscoperta di un atteggiamento più riflessivo, quasi mistico, con cui guardare alla vita, lo hanno cambiato. Quando però imbraccia la chitarra elettrica e la fa vibrare con un solo colpo, nessuno se ne accorge! Rock And Roll, man!
(la foto di Lou Reed on stage all'Auditorium di Roma è dello stesso autore del'articolo Giancarlo De Chirico)
Articolo del
09/07/2007 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|