Non avrei dovuto esserci, ma lo zen a volte sembra avere un occhio di riguardo e così, per una serie di fortunati accidenti, la sera del 12 settembre mi sono trovato a mangiare un tramezzino al Parco della Musica di Roma, in attesa dell’unica data italiana del tour solista di Steve Hogarth, voce solista dei Marillion dal 1988, quando Fish lasciò la band.
Devo ammettere che ho amato la prima stagione dei Marillion di quell’amore che provi solo nella gioventù e che, di conseguenza, ho sempre nutrito una diffidenza quasi inconsapevole verso la nuova formazione. Il che non mi ha impedito di continuare a seguirli. Nel 2004, quando sono venuti a Roma al Foro Italico, ho avuto la prima intuizione di essere in errore: quasi quattr’ore di concerto e la chiara percezione di una band che si diverte a suonare, che vorrebbe non smettere se la serata è giusta. E quella serata lo era.
Poi però non ci pensi più e ti ritrovi, più di dieci anni dopo, all’Auditorium a chiederti che concerto ti aspetta. Dal pubblico in attesa viene la sensazione di un gruppo di fan, sottolineata dalla sospetta diffusione di una t-shirt ad hoc che risulta, da una breve indagine, introvabile e da un gran numero di Pass in bella mostra. Una sensazione che si rafforza all’ingresso nella Sala Petrassi, dove l’atmosfera è amicale: capannelli di persone che chiacchierano, hanno l’aria di conoscersi, molti sorrisi, una grande attesa. Una bella sala, che si riempie rapidamente: pare che Steve abbia molti più amici di quanto non immaginassi.
E poi, puntuale, alle 21, Steve Hogarth entra in scena. Una scena minimale: le sue tastiere sul proscenio, con sopra un portatile e accanto un paio di bottigliette d’acqua, e qualche altra postazione strumentale. Lui arriva come se ci accogliesse a casa sua ed è subito standing ovation. C’è decisamente un grande feeling e nessuna traccia di sussiego, né di arie da rockstar. Dà invece l’impressione di uno che non vede l’ora di suonare la sua musica per degli amici, che vuole passare una bella serata. E comincia a suonare. Inizia con un brano dal suo album solo del 1998, 'Ice Cream Genius', la bella The Evening Shadows: poche note, poca scena, grande intensità e l’espressione di uno che ricorda cose. Non una canzone qualunque, piuttosto un pezzo che significa molto per lui, che porta echi a un dialogo interiore che risuona nell’esecuzione. La prima parte dello show è così, intima, ed è fatta di brani dei Marillion e di cover importanti per il suo percorso, come Here Comes The Flood di Peter Gabriel e Instant Karma di John Lennon. E di presentazioni più o meno elaborate, aneddoti sulla nascita delle canzoni. Poi domanda al pubblico se ci sono richieste particolari e con una bella scelta di tempo ottengo una magnifica versione di Easter.
È già più di un’ora che andiamo avanti e ho rivisto radicalmente i miei punti di vista: ho davanti un vero artista e coraggioso per soprammercato, perché dite quel che volete, ma presentarsi così, senza orpelli, senza scenografie complicate e contare solo su se stessi richiede fibra e fegato. Attacca The Deep Water, ancora da 'Ice Cream Genius', con un arrangiamento New Age fatto di suoni oceanici e scrosci di temporali e a un certo punto dalle ombre emergono le RanestRane, gruppo prog romano che per l’occasione, parole sue, “gli si è regalato”. Era un po’ rammaricato che le prove non gli abbiano permesso di godersi “the best city in the world”, ma da subito è chiaro che ne valeva la pena: Daniele e Massimo Pomo, Riccardo Romano e Maurizio Meo iniziano a tessere un arabesco musicale nel quale Hogarth scivola con agio, ci si accomoda e il concerto cambia pelle, diventa un incontro eccezionale tra passioni e gioia di suonare, snodandosi attraverso le cose migliori della stagione dei Marillion: tra le altre House, Estonia, Waiting To Happen, per finire con 80 Days.
Nessuno però crede a una fine così brusca, anche se abbiamo passato le due ore e mezza. E infatti, puntuale, il buon Steve torna sul palco, ci dice che abbiamo solo tre minuti, ma li mette a frutto. Chiude con Cage, un altro suo pezzo, a metà del quale anche le RanestRane rientrano, per un bellissimo, intenso arrivederci.
Insomma, è stato così che per puro caso ho visto uno dei più bei concerti della mia vita.
SETLIST:
The Evening Shadows Fantastic Place Cover my Eyes / The Man With The Child In His Eyes Better Dreams Working Town Hard As Love Here Comes The flood Instant Karma You’re Gone Afraid Of Sunlight Easter Beyond You The Deep Water Runaway Afraid Of Sunrise The Space… Out Of This world House Estonia Waiting To Happen Made Again 80 Days
Encore: Cage
Articolo del
14/09/2015 -
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