Un concerto non è mai soltanto una band che suona di fronte ad un numero esagerato di persone. Ci sono storie dietro ogni paio di mani che si levano al cielo, dietro ogni paio di occhi che trattengono a stento le lacrime. Ci sono chilometri e ore di sonno perse dietro ogni biglietto stretto tra le mani. Tutto questo fa dimenticare ore di fila, addirittura un ragazzo è davanti ai cancelli dalle 17:00 del venerdì (il concerto è alle 21:00 di sabato…). Quando i cancelli si aprono è inutile richiamare alla calma, la curva che divide i cancelli dal palco diventa un mattatoio che in pochi secondi trasforma la paura sui visi delle persone in sorriso orgoglioso e soddisfatto per il posto occupato, ‘e chi se move?’ è il leitmotiv. All’apertura dei concerti i backliners stanno ancora impazzando ed impazzendo sul palco, si prendono gli applausi, si godono i loro cinque minuti di celebrità. Scende la sera su Roma e mentre gli aerei atterrano con minor frequenza a Ciampino, si spengono le luci e alle 20:15 compare Caribou.
Sconosciuto alla maggior parte delle persone, riesce a conquistare il pubblico sin dal primo arpeggio. Un set asciutto e scorrevole che fa semplicemente capire che il ragazzo è fin troppo avanti, l’album “Swim” del 2010, che di per se è un ottimo album, riacquista un vigore ed uno spessore nel live che non lascia nemmeno per un attimo il pedale dell’intensità. Quando parte Odessa l’Ippodromo diventa un club, quando arriva il finale con Sun si ha come l’impressione che l’attesa ha già trovato una giustificazione. Aprire ad un gruppo come i Radiohead non è facile e tenere così bene il palco significa essere una spanna sopra tutti, questo l’ha capito il gruppo di Oxford che non ha avuto paura del confronto con un astro nascente dal talento enorme e soprattutto l’ha capito il pubblico. Ci sarà materiale da reperire in rete per tutti quelli che da lì a due ore torneranno a casa e cercheranno di ricordare come si chiamasse quel ragazzetto che armeggiava tra tastiere, batteria e microfoni effettati. Presi gli applausi generosi della platea, è giunto il momento di lasciare spazio agli headliners ed il palco diventa un microcosmo di presenze che trafficano velocissime e in maniera impressionante. Il risultato è che dopo una decina di minuti il buio sovrasta l’Ippodromo.
E’ arrivato il momento. Jonny, Phil, Colin, Ed, Clive e Thom entrano dalla destra del palco, imbracciano gli strumenti. “Ciao! Tutto bene? E andiamo!”. Lotus Flower. Si passa dal buio ad un rosso e arancione che pervade il palco, maestoso, il moog di Jonny riempie l’aria, il groove dei due batteristi rafforza il muro sonoro che si abbatte sui venticinquemila estasiati. I Radiohead sono cresciuti, hanno lasciato alle spalle il periodo nero dell’impatto con la notorietà, Thom non è più il ragazzo che scoppia in lacrime durante un’intervista. E’ disinvolto, sicuro anche nell’essere una maschera comica, è un intrattenitore che catalizza l’attenzione e rende straordinario anche un semplice gesto come ammiccare alle prime file o ballare goffamente come un quindicenne. Phil e Clive sono in parallelo con Colin, niente da aggiungere perché la sessione ritmica è ineccepibile. Ed sulla sinistra ha l’aria del passante che quando è necessario suona qualcosa, altrimenti basta la sua bella presenza per attirarsi cadeau e souvenir lanciati da ragazze (e donne) in estasi. Jonny è uno spettacolo a parte. Irrequieto, vive su frequenze diverse. Quando imbraccia la chitarra carica i suoi movimenti di un’intensità spaventosa, passa con disinvoltura dalla fender al moog, all’Onde Martenot, alle percussioni, alle tastiere, ai synth, al Kaoss Pad, all’archetto sulla chitarra. E’ lo spettacolo nello spettacolo, quando non tocca a lui si diverte a guardare il pubblico coi suoi occhi profondi e spiritati abbracciandosi alla chitarra come fosse un essere umano. Quando finisce il primo brano il pubblico è già al settimo cielo, ce ne saremmo potuti andare tutti a casa. Il suono, perfetto, creava l’impatto emotivo che veniva perfezionato da un gioco di luci davvero impressionante. Tutti gli stakanovisti delle prime file avranno già postato fior di album fotografici, basta dare un’occhiata per rendersi conto di quanto si sta leggendo. Si passa dal rosso acceso di intensità passionale del primo singolo di “King Of Limbs” all’avvolgente sensazione di sospensione di Bloom, un vero e proprio fluire di ritmica e imponenza vocale che anticipa momenti di vera e propria spiritualità. Far ballare su di un tempo dispari è una gran soddisfazione, i Radiohead se lo possono permettere. Sul 5/4 di 15 Step la gente si scatena, il cantato iniziale che poggia sulla drum machine è scandito dal pubblico che prima lascia partire il piedino all’intro di batteria e poi si lascia andare sull’arpeggio. Shakespeare diceva che la vita è un palcoscenico. Possiamo invertire i riferimenti, ed è il palcoscenico a riprodurre quella che è la vita.
Passare dall’esaltazione del momento all’emozione pura, quella da pelle d’oca, passare dalle vibrazioni del corpo a quella dell’anima. Weird Fishes/Arpeggi è un crescendo emotivo che live, inspiegabilmente, assume ancora più profondità. “Kid A” mancava in scaletta da troppo tempo, Thom scimmiotta, ritarda le sue parti vocali. La gente è già in visibilio, l’alchimia è forte, sia quella sul palco, sia quella tra la band ed il pubblico. Morning Mr. Magpie live perde completamente quel lato soft del disco per far scatenare la gente su di un’esecuzione prettamente rock. Inutile dire quanto There There sia coinvolgente, attesa e suonata con intensità da parte di tutti e sei i musicisti, allo stesso tempo è doveroso ribadire quanto The Gloaming trasmetta un senso di insicurezza più netto rispetto alla versione del disco e ovviamente esplode nella parte jazzata dove batteria e basso danno il meglio, Jonny è Dio: regola in tempo reale i loop carpiti dalla voce e dalla batteria e li risistema in modo tale che diventino tappeto ritmico su cui terminare la canzone. Separator serve a tutti per lasciar rifiatare, per notare quanto è importante avere una melodia facile ed immediata che per tre quarti della canzone poggia soltanto sulla batteria e su due/tre note di basso e per applaudire un’esecuzione canora che non ha lasciato spazio a stecche o errori rilevanti. Pyramid Song è una messa pagana. Jonny prende in mano la chitarra, riaccorda il ‘mi basso’ ed usa l’archetto per disegnare lo sfondo adatto all’inizio di pianoforte di Thom. Il pubblico è in silenzio, venticinquemila persone in assoluto silenzio, la voce ed il pianoforte riempiono di vibrazioni l’aria, tanto da poterne sentire l’eco. Gli applausi a fine canzone sono per tutti, anche per quei due o tre che hanno urlato lo stesso qualcosa, una buona media in proporzione al numero complessivo di persone che assistevano al concerto. Nude completa questa fase soft ed intensa con una splendida esecuzione dove ancora una volta la voce è l’elemento in più. Dopo la stasi emozionante, si passa al dinamismo ritmico. I Might Be Wrong, Planet Telex (“a veryoldsong..”), Feral ed Idioteque chiudono questa prima fase della scaletta sfinendo il pubblico. Il brano tratto da “Amnesiac” è travolgente e all’inizio del riff fa esplodere il pubblico, l’inatteso pezzo pescato da ”The Bends” è disarmante, potente, epico nell’accezione più classica del termine. Feral merita un discorso a parte. Tanta elettronica e loop, ad un certo punto c’è un’accelerazione di tempo ma tutto si equalizza nel giro di una battuta. Il risultato è pazzesco, quando l’effetto di basso fa salire l’intensità le vibrazioni mettono paura. Idioteque è ormai storia ma Jonny si supera, ha sotto controllo tutti i beat e a fine esecuzione si merita i complimenti dei compagni.
L’effetto sorpresa è sempre un jolly importantissimo da giocarsi. Se in questo caso coincide con Exit Music il risultato è impressionante. Ancora una volta un inizio in totale silenzio, poi l’impatto della seconda parte e il ritorno a quella dimensione epica tanto cara ai primi album del gruppo. House Of Card è la parola giusta al momento giusto, quella che ti riscalda e ti fa sorridere, quella che godi con piacere fino all’ultima nota grazie a quel ritmo in levare così apparentemente estraneo ai Radiohead (ma forse proprio per questo molto in stile Radioehad). Daily Mail mi è sempre piaciuta dal primo ascolto perché ha molto di Beatles e poi per quella seconda parte scandita e precisa che non t’aspetti. Un’apertura che nel live non perde per l’assenza dei fiati. La dedica poi, “this is for Berlusconi”, con annesso ammiccare di Yorke mentre suona i primi accordi, rendono il pezzo indimenticabile. Myxomatosis è un destro-sinistro da ko. Asfissiante, chiusa, perturbante, riesce a far muovere le teste ed i corpi delle persone facendo perdere il controllo della situazione, poi tutto finisce di colpo. Buio. Ed prende in mano la cabasa, Thom l’acustica, Colin i legnetti. Chi conosce bene i Radiohead sa che è arrivato il momento di Paranoid Android. Ascoltare dal vivo una pietra miliare della musica moderna lascia sensazioni particolari, è un po’ come assistere all’ennesimo Italia-Germania. Sai che comunque andrà, sarà l’ennesimo capitolo di una storia emotivamente carica. Diciamo che l’esecuzione del primo singolo estratto da ”OK Computer” è uguale alla semifinale di Euro 2012. Perfetta. La seconda pausa termina con l’entrata di Thom e Jonny che eseguono una Give Up The Ghost unica. A dare questo aspetto al brano c’è sicuramente il battito delle mani che scandisce il tempo e finisce nel loop del “don’t hurt me” ripetuto per tutta la canzone. Esecuzione ottima ed intensa e non è facile, l’Akai Headrush è uno strumento preciso che ripropone sezioni registrate in tempo reale e le trasforma in loop. Ma agli spettatori non serve sapere questo, stanno in silenzio e lasciano che la pelle d’oca faccia il resto. Reckoner mantiene tutto il fascino e la maestosità di ”In Rainbows”, il finale è ormai da decadi affidato a quello che forse è il pezzo più atteso, nonostante non sia mai stato un singolo. Everything In Its Right Place fa impazzire tutti sin da riff iniziale, la coda finale, lunghissima e affidata a sola effettistica di delay e loop per mano di Ed e Jonny, serve a far stemperare l’ambiente e a far capire a tutti che adesso è davvero finita. Amen.
A conti fatti i Radiohead, che li si ami o li si odi, hanno un live da dover vedere e gustare. Col tempo si sono creati uno spazio nel mainstream e lo hanno riempito di contenuti e scelte completamente personali (autoproduzione, il pay-what-you-want di “In Rainbows”, le tante chitarre di quest’album e l’elettronica esasperata di “King Of Limbs”). Un gruppo che può permettersi di non suonare i cavalli di battaglia ad un concerto vuol dire che ha un repertorio di una certa qualità. Si è parlato del concerto in questo caso e va ribadito che è un’esperienza da dover vivere. Il resto, i dibattiti da indie-snob e pseudo-alternativi, così come quelli tra fan delusi da un po’ di tempo a questa parte e adoratori che prendono per buono qualsiasi rumore o sonorità partorita dal quintetto di Oxford, conta poco perché le venticinquemila persone di Roma alle uscite avevano gli occhi lucidi, le facce sconvolte, ma il pezzo restante del biglietto ancora in mano, come reliquia. Impossibile capire il successo, così come le reazioni delle persone. Inutile congetturare più di tanto, in fondo ‘you can force it but it will not come’.
Articolo del
24/09/2012 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|