Dopo aver sentito l’ultimo album degli Alberta Cross non potevo mancare alla loro esibizione romana. La location scelta è la Locanda Atlantide che stasera offre un’acustica spettacolare!! Anche qui, come all’Init Club, non c’è verso che si inizi prima delle 22.00, il che lascia presagire l’ennesimo ritorno a casa in stato comatoso.
I due gruppi di supporto sono Junkie Storm e Matinee. Nell’attesa dello sparo d’inizio mi aggiro per il locale, semivuoto, ripiegando velocemente verso il bancone degli alcolici, scelgo una pinta rossa che male non fa. Mi accorgo di avere gli headliner accanto, uno scambio veloce di battute me li fa stare anche simpatici, ottimo inizio. Loro sono rilassati (consci che passeranno ben due ore prima dar fuoco alle polveri) mentre continuano a mandar giù alcol.
Nel frattempo i Junkie Storm, cinque elementi, mi convincono sin dalla prime note. Il cantante, un tipo in jeans calati, camicia e giacca, ha la sindrome delle gambe irrequiete, muove le mani come Joe Cocker e sfodera una buona voce, dalla timbrica roca e tagliente. Inintellegibile risulta il suo inglese, del tutto personale nella pronuncia, le cose non migliorano con l’italiano, come cantante e presenza scenica però ci siamo, non si può avere tutto. D’altronde se Emanuele Filiberto e Pupo hanno ragliato a Sanremo, con il loro italiano alla Biscardi, non vedo perché ci dovremo preoccupare delle parole incomprese. Il loro sound è un misto di rock, con accenti hard, e stati di rallentamento, una buona formula che poggia su un chitarrista solista efficace, dal taglio bluesy. Il basso, fantasioso, raddoppia la batteria in un tappeto potente lasciando libera il resto della band. Eseguono sei brani; fra i più riusciti: “Showman”, “La presa di Babele” e “Wonderland”. La buona sezione ritmica permette l’innalzamento della pressione interna dei brani, abbassata poi dalla valvola di sfogo fatta di sezioni più delicate.
Qualche minuto per il cambio palco ed ecco i Matinee, poche note dopo il loro ingresso inizio ad avere le visioni, ad ogni nota scorrono, in ordine di apparizione: i Kaiser Chiefs, gli Strokes, i Tv On The Radio, tutto spudoratamente uguale, in ogni dettaglio. Una noia letale mi assale, penso alla seconda pinta durante la loro seconda canzone, un pareggio dei conti necessario. No, decisamente non va bene, le cose peggiorano quando eseguono una canzone che spacciano per propria, ma che è “Rock And Roll Nigger” di Patti Smith. A quel punto agogno una morte veloce. Per fortuna sono seduto, altrimenti rischierei di stramazzare a terra con la schiuma alla bocca.
Qualche istante per riprendersi e senza una sola parola di presentazione gli Alberta Cross salgono sul palco. Ma stavolta è tutta un'altra storia. La musica cambia, eccome! Praticamente identici al sound del disco, ma arricchiti dal caldo pulsare del plasma che irrora il sistema venoso di un live, la band spacca, andando ben oltre le aspettative. Eseguono brani dell’ultimo lavoro, “Taking Control” e la stupenda “Broken Side Of Time”, di chiara matrice zeppeliniana, ma vanno a pescare anche dal precedente lavoro, “Old Man Chicago”. La scaletta fila via a meraviglia, nonostante l’ora tarda la gente rimane incollata a quella voce alta e pulita che non stanca. Amplificatori Marshall, una quantità importante di effetti nella pedaliera e ben sei chitarre, quasi tutte Fender, la dicono lunga sui loro gusti musicali. Gli Alberta Cross suonano del buon rock, a tratti psichedelico, vicino al vecchio Neil Young mentre in altri passaggi risultano piacevolmente viscerali. Il pubblico canta le loro canzoni all’unisono, “Rise From The Shadows”, e ondeggia in un headbanging controllato. Cappello, lunghi capelli biondi e andamento dinoccolato sono i punti di forza del singer che ringraziando Roma un’infinità di volte, si avventa sulla sua chitarra con rabbia e grazia senza sbagliare una mossa. Carisma e presenza scenica da vendere, mai invadente risulta la voce e ottime sono le linee melodiche scelte. La chitarra solista, alla sua destra, vanta inserti molto violenti e passaggi più diluiti, mentre il drummer gioca con classe sui timpani, andando a colpire tutti i piatti a disposizione. Questa continua alternanza forte/piano catalizza l’attenzione dei presenti, mantenendo sempre alto il pathos, mentre l’uomo alle tastiere riempie gli spazi lasciati liberi dalle sei corde. Il risultato di questo ottimo gioco di luci e ombre è simile a carezze e frustate che corrono veloci su per la schiena, provocando una, stordente, vertigine dei sensi. Non è facile trovare un neo in questo show e sinceramente non ci teniamo affatto.
La band esce dal palco dopo “Atx”, dal rifferama in crescendo e slide guitar tagliente, che sembra mutuata da “The Devil In Me” dei 22-20’s. Ma non potevamo mancare gli encore, due, coronamento di una serata veramente perfetta. Dopo lo show la band concede fotografie e autografi, il tutto in un clima disteso e piacevole. Grande serata, butto un occhio all’orologio, sono le due!! C.V.D.
(Si ringrazia Marta Pezzino per la foto degli Alberta Cross in azione a Locanda Atlantide)
Articolo del
01/03/2010 -
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