I quattro giorni passati sulle strade dell’Irlanda non sono il viaggio più bello che ho mai fatto. Questo è sicuro. Però è altrettanto sicuro che sono stati tra i giorni più strani. Per la compagnia improvvisata e per alcune situazioni in cui mi sono trovato.
Serve una breve premessa per capire.
Nikki è una ragazza canadese. Conosciuta in Australia un paio di estati prima, quando abbiamo passato tre giorni insieme in un’uscita in barca. Avevamo trascorso un po’ di tempo insieme parlando un po’ di tutto e ci eravamo ripromessi di sentirci. Un po’ come si fa con parecchia gente in tutte le vacanze dalle estati al mare a tredici anni in avanti. Ma con lei è andata diversamente da quasi tutte le altre mille volte. Più o meno dal nulla, dopo qualche mail, raccoglie un mio invito buttato lì. Viene a Milano a stare da me cinque giorni. Mi avvisa quando sono in Argentina. E, perchè no, mi faccio qualche idea sulla situazione. Se viene, e sa che saremo da soli a casa, qualche speranza c’è. E anche più di qualche. Le organizzo una cosa dopo l’altra, tutto dev’essere perfetto. Anche perché è molto carina. Concerto acustico di Peter Doherty la prima sera, cene con tutti i miei amici che aveva conosciuto in Australia, un paio di uscite a ballare, gita al lago con pranzo fuoriporta e pure una visita a un castello fuori Milano. Insomma, di tutto e di più. Lei si rivela davvero carina. Permalosa, divertente, dolce. Quasi perfetta a tratti. E i momenti più belli, poi, sono a casa. A parlare del nostro passato, di sogni, di viaggi davanti ad un atlante aperto e a mangiare mezzi ubriachi a fine serata. Lei attaccata al parmigiano a qualsiasi ora. Io che non stavo zitto un attimo. Con in sottofondo gli Arcade Fire che la facevano sentire un po’ a Montreal.
Poi, bloccato sempre come un tredicenne in vacanza al mare, non provo neanche a baciarla. Due o tre momenti in cui chiaramente avrei potuto (o forse dovuto) ce li avrei anche in mente. Cazzo.
Una mattina riparte per Dublino. Lavora lì fino all’estate e poi tornerà in Canada a riprendere gli studi. Ci sentiamo parecchio. Organizziamo una trasferta per il Festival Rock di Wertcher a giugno, quattro giorni in tenda vicino a Bruxelles per sentire Bloc party, Coldplay, Dave Matthews Band, Oasis e molti altri. Ma mancano ancora tre mesi. Così decidiamo per una macchinata irlandese nei giorni di Pasqua. Appuntamento in aeroporto a Dublino e via verso Nord. Inutile dire che la mia speranza erano quattro giorni belli come quelli di Milano e con un paio di cosette in più.
L’inizio del giro non è neanche male. Siamo solo io lei, cosa di cui non ero poi del tutto sicuro finché non l’ho vista arrivare da sola in aeroporto, e guido fino a Belfast, la capitale della parte inglese dell’isola. Qui, iniziano le brutte sorprese. Per dormire ha prenotato tutto lei. Non vuole spendere troppo e ha preso un ostello in centro. Il posto sembra anche carino e magari, spero, ha chiesto una stanza da due. Invece no. Siamo nella seconda sede dell’ostello, in un casermone anonimo al di là di un vialone con vista su uno dei tanti muraglioni della città con in cima del filo spinato, ricordo di anni non lontani di violenze. E siamo in una camerata da otto, piena di letti a castello, con moquette fetida e inferriata alla finestra. Cazzo. Comunque, almeno, è vuota e tutta per noi. Intanto, penso solo ad uscire in fretta da quel posto tristissimo.
La serata è bella. Prima un giro quasi turistico con tanto di mappa di quel pochissimo che offre la città, poi una cena carina e finiamo in un locale dove suona un gruppo non male, i Brent Flood. Un pò atteggiati, soprattutto il cantante che ricorda molto il Jonathan Ryhs-Meyers di “Velvet Goldmine”, ma bravi, con ballatone rock come “Pleasureseeker” e riff accattivanti come in “Kiss The Dirt”. E, dopo tanti pezzi loro, chiudono con una cover di “Black Or White” di Michael Jackson. Noi beviamo un po’ e ci divertiamo. Quasi quasi inizio a sperarci. Poi torniamo in stanza. E’ ancora vuota. Dai che magari. Ma, giusto il tempo di passare dal bagno al piano di sopra, entra una famiglia di sei francesi. Padre, madre e quattro figli. In giro in camper e con una voglia infinita di fare conversazione sterile. Di dove siete. Come mai siete qui. Che bella l’Italia. Maledetti. E gli rispondo a monosillabi sperando che, se non posso fare niente di più, almeno mi lascino dormire. E pensare, con un sorriso, a come sono finito in quella situazione.
Il giorno dopo facciamo un bel po’ di macchina. Tutta la costa dell’Ulster fino a Londonderry, tra castelli, paesini di pescatori immersi nel verde e qualche sosta nei punti più suggestivi della strada. Il tutto stando all’occhio a entrare nelle rotonde dalla parte giusta. La secondasera, a Londonderry (per i cattolici solo Derry, visto che non vogliono neanche nominare la capitale della Regina), è forse peggio della prima. Siamo in camera con due biondi che dormono quando rientriamo e dormono la mattina dopo quando partiamo. Quindi diciamo che in camera non ci sono troppi spazi di manovra. E fuori è la domenica di Pasqua, quindi non c’è praticamente nulla di aperto. E tempo di mangiare qualcosa, fare il giro delle mura che racchiudono il piccolo (e questo sì, bello) centro della città e bere una birra dove un gruppo di arzilli e alticci vecchietti suona musica gaelica, siamo a dormire anche noi coi due biondi.
Fin qui, a parte che mi ero ormai reso conto che stavo facendo solo una simpatica scampagnata in amicizia e non era proprio il mio programma, tutto bene. Posti non certo eccezionali ma non male e, comunque, tutto abbastanza divertente. L’ultimo giorno, però, mi sono pure un po’ incazzato.
Guido ancora parecchio, sotto una pioggia fastidiosa, fino alla costa ovest e poi, tagliando tutta l’isola, di nuovo fino a Dublino. Passiamo da casa di Nikki per l’ultima sera. Lì, c’è un personaggio a dir poco fastidioso, Nico. Il compassato coinquilino francese. Usciamo a cena io e lei. Poi finiamo in un locale di Temple Bar bellissimo. Un pub di tre piani con un palco sospeso tra il secondo ed il terzo dove una band suona grandi classici rock, da Johnny Cash in avanti con tanto di armonica a bocca. Qui ci raggiunge Nico per un paio di birre. Non riesco troppo a mascherare il fatto che mi stia sui coglioni. E quando, a casa, lei mi cede il suo letto e mi dice che dormirà sul divano in salotto, non ci speravo già più. E pensavo, di nuovo, questa volta senza sorridere troppo, a come ero potuto finire in quel posto e in quel momento. Poi, tre o quattro ore dopo, svegliandomi per attraversare in macchina prima dell’alba una città che non conosco e correre all’aeroporto per presentarmi in pessime condizioni al lavoro, quando vedo che lei non è sul divano, non cambia nulla. Il francesino, avrà avuto l’aria da stronzetto, ma evidentemente non era così stupido.
Mi sa che a Werchter, in tenda, magari sotto la pioggia e nel fango, strappando ferie che non so neanche se potrei avere, ci andrò un’altra volta.
Articolo del
04/02/2010 -
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