Un silenzio speciale, un misto di emozione e di concentrazione in attesa dell’evento, accoglie il ritorno a Roma in concerto di Leonard Cohen, dopo ben 15 anni di assenza. La sua figura, di autore e di interprete, il lirismo poetico e la profondità spirituale che accompagnano ogni sua espressione artistica, dai primi anni Sessanta in poi, hanno fatto di lui una leggenda vivente della musica internazionale. E adesso a 73 anni compiuti torna davanti ad un pubblico consapevole ed attento, che ha mandato all’aria qualsiasi altro impegno, pur di esserci. I pochi biglietti rimasti finiscono in un attimo mezz’ora prima dell’evento, il sold out è un ulteriore testimonianza dell’affetto di un pubblico di generazioni diverse, di fronte a questo artista unico, superiore, il solo che riesca davvero a dare voce all’anima, a far cantare il cuore, ad accorciare la distanza fra l’uomo e Dio. Dopo aver trascorso cinque anni in isolamento in un monastero americano, da qualche tempo è tornato a vivere nella sua casa di Montreal, in Canada e ha ricominciato a fare canzoni insieme all’adorata Sharon Robinson, coautrice e collaboratrice su “Ten New Songs” e “Dear Heather”, i suoi due ultimi album. E’ presente anche lei - insieme ad altre due eccellenti coriste - sul palco della Cavea questa sera. Con loro un gruppo di altissimo livello formato da Roscoe Beck, il direttore artistico, al basso, da Neil Larsen , alle tastiere e ai fiati, da Bob Metzger, alla chitarra elettrica, da Javier Mas, alle chitarre acustiche, da Christine Wu alla viola, da Rafael Gayol, alla batteria e alle percussioni, e da Dino Soldo, al sassofono. Una vera e propria orchestra, rispettosa ed attenta, al servizio del principe dei crooner, l’uomo che soltanto con la sua voce apre fenditure nelle pietre più dure. Leonard Cohen è in abito scuro, di un eleganza dimessa, quando echeggiano le note di “Dance Me To The End Of Love”, bellissima, mozzafiato, come la ricordavamo. Lui ad un certo punto si inginocchia e offre il suo cappello in gesto di devozione verso il pubblico. Siamo davanti ad un signore, l’ultimo dei gentiluomini rimasti sulla Terra, l’ultimo dei romantici, anche se poi non mancano né il sarcasmo né l’asprezza quando esegue “The Future”, una canzone quanto mai pessimista ma profetica. Arriva presto il momento di “Ain’t No Cure For Love”, una delle più belle canzoni d’amore mai scritte, un brano che è diventato ormai uno standard della musica internazionale. “Bird On A Wire” è il suo testamento spirituale, da sempre, ed è con la stessa convinzione di un tempo che interpreta il suo inno alla libertà, il bene più prezioso, per cui è valsa la pena rischiare, soffrire, cadere, riprovare ancora. Quanto mai pregevoli gli arrangiamenti di “Everybody Knows”, una riflessione tanto gradevole quanto amara sulla condizione umana, che precede la prima concessione alla sua produzione più recente, quella del pop sofisticato di “In My Secret Life”. Gli arpeggi preziosi di una chitarra portoghese introducono piano le note di una “Who By Fire”, incantevole al punto che ci sembra come se la musica non sia mai esistita prima o non abbia più senso dopo. Leonard Cohen si inchina più volte sia per ringraziare i suoi musicisti, che per ringraziare un pubblico semplicemente in delirio, incredibilmente entusiasta. Stiamo ascoltando il concerto che volevamo, quello che dovevamo sentire, tutto in una sera, la Bibbia della nostra storia musicale e quella esecuzione struggente di “Hey That’s No Way To Say Goodbye” non è altro che una conferma alle nostre sensazioni. Prima di cantare ancora, Leonard Cohen si ferma un attimo, si sofferma su quanto siamo fortunati noi a trovarci qui questa sera, in questo luogo magnifico, mentre in altre parti del mondo c’è odio, sofferenza, c’è uno stato di guerra o di privazione. Allora recita a cappella, in un silenzio toccante, una strofa di quella che sarà la prossima canzone: ”There’s a crack in everything/ That’s how the light gets in” per poi intonare il brano, “Ring The Bell”, sul quale si chiude la prima parte della serata. Dopo una pausa piuttosto lunga, il concerto riparte da “Tower Of Song”, la canzone in cui Leonard Cohen canta “I was born with the gift of a golden voice”, e provoca uno scrosciante applauso di approvazione. Arriva un altro momento da brividi, quello dell’esecuzione di “Suzanne”, canzone che negli anni Sessanta fu anche tradotta in italiano da De Andrè prima e dalla Vanoni poi, un caposaldo del repertorio musicale di tutti i presenti. In questa seconda parte aumenta il contributo vocale di Sharon Robinson che canta con lui “Boogie Street”, uno dei brani dell’ultimo disco. Le note di “Hallelujah” suscitano l’accompagnamento corale di tutto il pubblico, siamo veramente ad un passo dalla commozione, che viene allontanata presto dai ritmi più sostenuti di “Democracy” e della ben nota “I’m Your Man”, altro brano che fa ondeggiare i presenti. “Take This Waltz”, maledettamente triste, e romantica come mai, chiude la parte ufficiale del concerto, lui prova ad andare via, ma non ci riesce proprio. Le tante acclamazioni e gli applausi lo fanno tornare, lui esegue “So Long Marianne” e una straordinaria “First We Take Manhattan” in cui ci regala qualcosa di suo, una confidenza intima, tutto in una frase “remember me I used to live for music”. E ancora, una bella versione acustica di “Sisters Of Mercy” e quella che lui stesso definisce una preghiera, un testo che poi ha messo in musica, la straordinaria “If It Be Your Will”, recitata prima da lui in “assolo” e poi cantata dalle coriste. Gli serve “Closing Time” per far capire alla gente che è finita per davvero, ma neanche lui vuole più andarsene. E’ un commiato difficile, come pochi, un’emozione forte, che solo chi davvero “vive di musica” poteva offrirci. Da ricordare.
(l'autore della foto di Leonard Cohen alla Cavea dell'Auditorium di Roma è Giancarlo De Chirico)
Articolo del
29/07/2008 -
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