Non bisogna lasciar passare neanche una nottata, dopo aver assistito ad un live di Vinicio Capossela – fosse pure un live breve come un radioshow registrato presso gli studi Rai di via Asiago 10 di Roma. Perché si rischia di veder evaporare tutte le sensazioni che “Non Trattare”, “Brucia Troia” o “Dove Siamo Rimasti a Terra Nutless” ti iniettano senza chiederti il permesso. Invasive. E di rimanere con un pugno di mosche in testa. E così, alle 23,41 di questo bigio venerdì sera, eccomi immediatamente davanti ai tasti che aspettano di essere distrutti per l’ennesima volta. Ha fatto praticamente tutto lo splendido “Ovunque Proteggi”, il mefistofelico Capossela – intimorisce davvero, novello lucifero della canzone italiana. E lo ha eseguito alla perfezione, legando le tredici canzoni – che poi, insomma, canzoni proprio non sono: piuttosto roboanti ed allucinate suites partorite da una mente troppo sensibile e però chirurgica per appartenere a questo secolo – con una serie di soliloqui che sono ormai la sua cifra, anche e soprattutto teatrale. Fra una maschera da bue e un registratore di cassa vecchio stile, campane e campanacci, mascelle d’asino campionate, theremin e diavolerie varie ed avariate, Capossela è ormai l’archetipo e al contempo la personificazione del trickster (musicale). Lo spirito malvagio e però burlone dell’Africa e dell’America Centrale. Capossela, per il cantautorato italiano – elemento unico ed irripetibile – è appunto un po’ lo spiritello bastardo e sornione che fra un “Moskavalza” ed un “Medusa Cha Cha Cha” riesce a rivelarti, con un uso sapiente del mito (proprio in “Medusa”), la “parte di sotto” dell’esistenza umana. Quella parte di sudore e polvere che è proprio la stessa in cui si muove Spessotto, l’allegro e pestifero monello (il trickster, perché no?) che è un po’ la mascotte del nuovo lavoro caposseliano. Stasera non c’è stata una sbavatura. Sala A di via Asiago stracolma. Capossela è ormai, egli stesso, un mito, per certa audience. Più che un mito, forse l’unico che, semplicemente, come pochi altri nell’arte italiana (penso al pauroso Antonio Rezza) combattono l’ipocrita morale comune e, a cavallo fra sacro e profano, ci svelano quanto sappiamo ma non vogliamo dirci. C’è proprio un profumo, nell’aria dello studio. Un’atmosfera di danza, di genialità culturale, di estro. Musicalmente, si sa, Capossela è un folle: narra e canta, urla e si esalta su basi che variano dalla ballata straziante “Ovunque Proteggi” o “Pena de L’Alma” al cha cha cha passando per gli anatemi di “Non trattare” o al trotterellante andamento di “Dalla Parte di Spessotto” – che pare di vedertelo davanti, che ti strizza l’occhietto, e ti invita a seguirlo, quel pestifero. Così come, volenti o nolenti, non si può non seguire aboccaperta la meticolosa e sistematica operazione di “violenza” applicata da Capossela alla lingua – sia nei testi che nel terroristico uso dell’intonazione e del tono. Anche se non si ama Capossela - cosa possibile e assolutamente umana, visto che anche chi lo ama a tratti non lo sopporta -, è davvero impossibile non ammirarne la spregiudicatezza. E qualcuno che si tuffi per primo, si sa, ci vuole sempre.
Articolo del
25/02/2006 -
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