(a cura di Giuseppe Provenzano, Marco Sonaglia e Giulia Montinaro)
C’è quel vecchio detto che recita, più o meno, che si ritorna sempre dove si è stati bene. Ecco, siccome lo scorso anno, ad Ancona, mi sono trovato (ed è Giuseppe che scrive, come sempre ha lo jus primae noctis sulle introduzioni) più che bene, quest’anno ho deciso di tornarci, usando nuovamente La Mia Generazione, il festival diretto artisticamente da Mauro Ermanno Giovanardi, come pretesto. E, se lo scorso anno sia io che Marco Sonaglia presenziammo solo alla prima serata, quest’anno ci siamo goduti entrambe le serate musicali ed anche un discreto carico di umidità alla Mole di Ancona.
Di più, con noi c’era anche Giulia Montinaro, terza firma di questo articolo, assimilabile quasi in tutto e per tutto ad un opuscoletto, vista la lunghezza, ma tant’è. Festival diretto da Joe, si diceva, che inanellava in line- up tanta, tantissima musica. Due serate- entrambe condotte da Massimo Cotto- dense di concerti: quattro set la prima sera, il “Venerdì di Venere”, serata tutta al femminile, addirittura cinque set per il “Sabato di Saturno”, la serata successiva, tutta a tinte maschili. Ad aprire, i dj set rispettivamente di Eva Poles e Carlo Chicco. E se dal punto di vista artistico si può parlare, a buon diritto, di un successo perfettamente centrato, tuttavia non può essere taciuta- lo sapete, la vis polemica è la mia vocazione e, in qualche misura, anche il mio piacere, l’enorme scortesia del personale della security. Scrivo da due anni e credo di non essermi mai sentito così umiliato come nell’immediato post concerto della seconda serata. E purtroppo non sono il solo: siamo stati letteralmente cacciati con modi molto, ma molto poco educati, è stata messa in dubbio la nostra professionalità, quasi che fossimo degli scrocconi qualsiasi, non ci è stato permesso di fare il nostro lavoro (e a tal proposito è sempre buona norma sottolineare che anche se non ci pagano, qui ci si fa un bucio di culo grande quanto il traforo del Sempione, per tirare giù articoli che possano essere quantomeno precisi) e si è stati trattati- sempre dalla security, mai dall’organizzazione, lo sottolineo- con delle maniere pessime, robe tipo “Me ne sbatto del tuo cartellino” rivolto alle colleghe della Rai (!!) ed altre amenità, diretta conseguenza del mettere in posti “di comando” gente eufemisticamente troppo zelante.
Poi, alla fine, fortunatamente è sempre la musica ad avere l’ultima parola, e non sarà di sicuro il comportamento trinariciuto di qualcuno che si autopromuove a dio di quart’ordine a farci dimenticare il bello che ci ha inondato le orecchie. Grossomodo è andata così. Ah, ultima cosa: in calce all’articolo trovate due intervistine piccoline, nugae avrebbe detto Catullo, a Gianluca De Rubertis e Massimo Cotto. Piccoline sì, ma non per questo meno interessanti.
Prima serata Nada
Ad aprire le danze della quarta edizione de "La mia generazione" c'ha pensato Nada, madrina d'eccezione, lei che ha lavorato con Piero Ciampi e Fausto Mesolella, punto di riferimento per parecchi artisti presenti al festival. La cantante si è presentata accompagnata solamente dall'ottimo Andrea Mucciarelli alla chitarra, che ha riempito di arpeggi e ritmiche la sua coinvolgente esibizione. Nada domina il palco: è interessante vedere come usa la voce, come gestisce questo timbro così particolare e il feeling che crea con il suo musicista. Energia pura e una presenza scenica fatta di gesti teatrali, di passione, quasi carnale, che avvolge lo spettatore. Non sono mancati i momenti toccanti come la versione da brividi di "Maremma amara" (canzone popolare portata al successo da Caterina Bueno), i classici da " Ma che freddo fa" a " Luna in piena", " Amore disperato" a " Ti stringerò"). Una versione a cappella potentissima di " All'aria aperta" ha chiuso un set veramente formidabile, anche troppo corto per la sua bellezza. Pubblico in piedi e standing ovation per una delle voci più interessanti del nostro paese, che ringraziamo ancora per questo bellissimo momento.
Scaletta
Tutto a posto Senza un perchè Guardami negli occhi Maremma amara Luna in piena Distese Ma che freddo fa Amore disperato Ti stringerò All'aria aperta
Giorgieness
Al set di Nada fa seguito Giorgieness, accompagnata a chitarra e sintetizzatori da Davide Napoleone. La cantautrice lombarda tira fuori un set energico e denso di trasporto, scandito da un perfetto incastro fra colori acustici e nuances elettriche. Interessante la prova vocale, praticamente perfetta dal punto di vista tecnico e, soprattutto, molto centrata sul versante interpretativo (anche considerando che cantare dopo Nada tutto era fuorchè facile), carica com’è di trasporto emotivo. Set che si snoda lungo tutto il percorso artistico tracciato fin qui dalla talentuosa cantautrice, e che racchiude pezzi dal suo primo lavoro, “La giusta distanza”, da “Siamo tutti stanchi”, dall’ep “Nuove regole”, più quattro singoli dall’album di prossima uscita. Fra i brani in scaletta, spiccano una “Successo” che rende perfettamente anche in duo, con delle interessanti sporcature di elettrica ed un groove abbastanza serrato, una “Fotocamera” che sottolinea la delicata potenza della scrittura di Giorgieness, ed una “Non ballerò” cantata, quasi catarticamente, fra il pubblico, senza microfono ed amplificazione. Insomma, per chi non la conosceva, Giorgieness è stata, con tutta probabilità, la vera sorpresa di questo Festival, rivelandosi una scelta azzeccatissima nella line up, perfetto esempio di una nuova generazione musicale.
Scaletta
Come se non ci fosse un domani Questa città Maledetta Controllo Dare fastidio Successo Hollywoo Fotocamera Che cosa resta Tempesta Non ballerò
Violante Placido
Terza artista a salire sul palco è Violante Placido, che comincia la sua esibizione con una “We will save the show” tirata fuori direttamente da “Sheepwolf”, il suo secondo album. Oltre a questa, pesca dal suo repertorio anche due inediti, immaginiamo di prossima pubblicazione, per poi cedere il posto ad un quintetto di cover da brividi: si parte da quel capolavoro che è “Fallin’ from grace”, firmato Marianne Faithfull, per continuare con “Eh già”, traduzione (curata dalla stessa Violante Placido) di “Voilà”, dal repertorio di Françoise Hardy, col suadente omaggio alla trasgressione di Patty Pravo (“Pensiero stupendo”), con la zampata di “Yes, I’m a witch” di Yoko Ono e, soprattutto, con quella “Femme fatale”- ovviamente Nico& Velvet Underground- che è un po’ il leit motiv di tutta l’esibizione, soprattutto considerando che le cinque cantautrici scelte sono le protagoniste del nuovo spettacolo teatrale della Placido, che si intitola proprio “Femmes fatales” e che è un vero e proprio omaggio all’universo femminile ed alla sua unicità.
Set che risulta, nel complesso, gradevole, nonostante una minore tensione scenica rispetto ai precedenti, ma Violante è emozionata e si vede. Alle volte basta il cuore, e questo è uno di quei casi. In più, lo spettacolo sembra molto, molto interessante, un teaser del genere non può che far bene.
Scaletta
We will save the show
Fallin from grace (Faithfull)
Eh già (Voila, Hardy)
Pensiero stupendo (Pravo)
Inedito
Inedito
Yes, I'm a witch (Yoko Ono)
Femme fatale (Nico& Velvet Underground) Rachele Bastreghi A chiudere questa prima serata ci pensa Rachele Bastreghi, che porta sul palco della Mole di Ancona la sua “Psychodonna”, tirando fuori dal cilindro un set intriso di venature elettroniche, che sfociano spesso in muscolari code strumentali. Si percepisce in maniera netta e palpabile quanto il palco sia elemento congeniale- soprattutto nella sua funzione più catartica- non solo alla Bastreghi, ma a tutta la sua band: la tenuta scenica è perfetta, ed ogni elemento si incastra alla grande con l’altro, così come ogni interpretazione è perfettamente bilanciata, anche dal punto di vista più strettamente teatrale.
Set da cui spiccano una versione di “Penelope” da scompigliare i capelli, a conferma che dal vivo rende ancora meglio che in studio, una “Mon petit ami du passè” (tirata fuori da “Marie”, il primo ep solista di Rachele) giocata su un incastro fra tastiere e sintetizzatori semplicemente splendido, ed una cover di “Fatelo con me” di Anna Oxa semplicemente meravigliosa, molto più ritmicamente marcata dell’originale. Insomma, un set magnificamente vivo, pieno di musica suonata e vissuta quasi in maniera carnale.
Scaletta
Poi mi tiro su Not for me Come Harry Stanton Penelope Mon petit ami du passé Folle tempesta Lei strumentale Fatelo con me (Oxa) coda strumentale Resistenza coda strumentale
Tirando le somme, questo Venerdì di Venere riesce alla grandissima nel suo scopo, vale a dire omaggiare la classe e la potenza della musica d’autrice. Ci riesce azzeccando la line up, che è un vero mix generazionale, mostrando uno spaccato solidissimo di una scena- fortunatamente- in ascesa, e regalando anche degli interessanti spunti poetici.
Seconda serata Gianluca De Rubertis
Seconda serata che si apre con Gianluca De Rubertis, entrato nel cast praticamente sul filo del rasoio che, nello spazio di quattro canzoni, tutte piano e voce, tutte tratte da “La violenza della luce”, suo ultimo lavoro, riesce ad essere perfetta fotografia di tutta la bravura del nostro. A sgorgare potente dal suo set, infatti, è- oltre alla bravura tecnica, con accompagnamenti mai banali ed una bella prova vocale- anche la splendida capacità di scrittura di De Rubertis, fatta di versi immaginifici e intense suggestioni letterarie. Insomma, non ci sarebbe dispiaciuto affatto ascoltarlo per più tempo.
Scaletta
Nel cuore del cuore La violenza della luce Solo una bocca Pantelleria Francesco Bianconi Al breve intervento iniziale di Gianluca De Rubertis, segue Francesco Bianconi, con una selezione tra i nuovi brani del suo primo disco solista, "Forever", e più la sua versione de "La cometa di Halley", pezzo scritto per Irene Grandi e uno splendido omaggio ai Diaframma, con la loro "L'odore delle rose". La presenza dell'intera band riempie il palco, permettendo di presentare i brani integralmente in modo pressoché fedele rispetto alla registrazione originale. Un set intenso ed impegnato, reso interessante anche dai frequenti interventi di Bianconi che racconta aneddoti sulla nascita di alcuni dei brani del disco, come "Zuma Beach" composto dopo aver visitato una spiaggia e lo splendido mare della California in cui è facile rendersi conto di "esser niente" rispetto alla potenza e alla bellezza della natura.
La voce profonda e scura di Bianconi e il violino lamentoso e graffiante di Alessandro Trabace si coniugano insieme in una perfetta unione capace di far trasparire l'anima più intima del disco, quel senso di inquietudine e rivalsa che emerge in molti dei brani di "Forever" e viene esplicitato particolarmente da "L'abisso", pezzo chiave dell'album su cui, durante la breve intervista fattagli da Massimo Cotto, lo stesso Bianconi si sofferma, descrivendolo come "un brano felice" sulla discesa nel proprio abisso e il ritrovamento di sé stessi. Altri bei momenti del suo set sono una “Il mondo nuovo” in cui spicca il tempestoso piano di Angelo Trabace, la già citata “La cometa di Halley”, in una versione elegantissima ed intensa, e “Go!”, resa acida da un finale quasi industrial.
Scaletta
intro strumentale Il bene Go! Andante Il mondo nuovo L'abisso Zuma beach La forza La cometa di Halley L'odore delle rose(Diaframma) Certi uomini
Diodato
Ad avvicendarsi con Bianconi c’è il pop raffinato di Diodato, autore di un live potente ed appassionato, in cui gli squarci del violino di Rodrigo D’Erasmo si incastrano alla perfezione con i fraseggi della sezione archi, così come la voce di Greta Zuccoli si sposa perfettamente con quella di Diodato. Ottima la tenuta scenica, ottima anche, giusto per rimanere in tema, la prova vocale: nessuna pecca, nessur errore, una vera e propria macchina da live. Fra la scaletta, che abbraccia tutto il percorso discografico del cantautore tarantino, e principalmente, “Che vita meravigliosa”, suo ultimo lavoro, si distinguono l’omonima title- track, una bella versione di “La lascio a voi questa domenica”, probabilmente il passaggio più interessante dell’intero set, e l’omaggio a De Andrè, con una “Amore che vieni, amore che vai” che, seppur preferibile nella sua versione più elettrica e distorta, non sfigura troppo.
Scaletta
Un'altra estate Ubriaco E non so neanche tu chi sei Mi si scioglie la bocca Amore che vieni amore che vai (De André) Questa domenica Fino a farci scomparire Fai rumore Che vita meravigliosa
I tempi tecnici del cambio palco danno modo di assistere ad uno dei momenti più interessanti della serata: Massimo Cotto, sempre nelle vesti di presentatore, chiama sul palco Guido Harari, vera istituzione della fotografia, oltre che critico musicale a sua volta. Harari ha scattato praticamente per tutti, firmando copertine di dischi per, fra gli altri, Dylan, Frank Zappa, Paolo Conte, Capossela, Lou Reed, oltre che facendo da fotografo personale per il già citato Faber. Cotto, più che condurre una intervista, fa quasi da voce fuori campo, lanciando gli input per i racconti di Harari, che nascono come gustosi aneddoti e retroscena di alcuni dei suoi set fotografici (Tom Waits, Cohe, per citarne un paio), e diventano interessanti frammenti di vita vissuta. Un momento splendido, oltre che un bellissimo tributo ad un grande artista.
Niccolò Fabi
La serata musicale riprende con il concerto di Niccolò Fabi, qui in trio, insieme a Pier Cortese e Bob Angelini. Anche in questo caso, il cantautore romano ci regala un concerto che è un caleidoscopio di emozioni, cantate con la sua solita classe cristallina e, come sempre, con una eleganza fuori dal comune. Cortese a fare i cori ed Angelini a svisare, fra chitarre elettriche ed elettronica, compongono un puzzle dall’amalgama perfetta, un toccasana per cuore ed orecchie. Live che fa quasi da breviario poetico di questo meraviglioso artista, impreziosito da capolavori come “Filosofia agricola”, “È non è”, o “Costruire”. Non mancano, ovviamente, episodi da “Tradizione e tradimento”, il suo ultimo lavoro, e grandi classici, come una “Lasciarsi un giorno a Roma” cantata praticamente da tutto il pubblico. L’unica pecca è stata, anche in questo caso, la breve durata del set, che, consequenzialmente, ha portato ad una scelta più ristretta dei brani eseguiti. Per dire, ascoltare “Una buona idea” o “Io sono l’altro” avrebbe reso il set un vero scrigno di bellezza, ma tant’è: non mancheranno sicuramente altre occasioni.
Scaletta
Filosofia agricola A prescindere da me È non è Amori con le ali Ostinatamente Una mano sugli occhi Costruire Lasciarsi un giorno a Roma
Mauro Ermanno Giovanardi Il finale del festival è affidato al suo direttore artistico Mauro Ermanno Giovanardi, che coglie l'occasione per festeggiare i vent'anni di "Crocevia", il disco di cover realizzato con i La Crus nel 2001. Un'esibizione intima dove la voce calda e suggestiva di Giovanardi si interseca con il violino di Jessica Testa e le chitarre di Marco Cosma Vignera Carusino.
Scorrono in scaletta i brani del disco come " Ricordare" di Morricone (scritta per il film " Una pura formalità" di Giuseppe Tornatore"), "Estate", "Giugno ‘73", "L'illogica allegria", "Annarella", "E penso a te" che ha coinvolto il pubblico nel coro finale. Per l'occasione Giovanardi ha proposto due canzoni che idealmente ci stavano benissimo in " Crocevia": "Ho difeso il mio amore" (con un testo a tratti diverso dalla traduzione usata dai Nomadi) e "La canzone dell'amore perduto" di Fabrizio De Andrè. Un set parecchio applaudito e coinvolgente, grazie anche alle ottime capacità istrioniche di Giovanardi, che ha chiuso idealmente questa ricca edizione del festival.
Scaletta
Ricordare Estate Pensiero stupendo Via con me L'illogica allegria Giugno 73 Annarella Ho difeso il mio amore La canzone dell'amore perduto
Anche per il “Sabato di Saturno” l’operazione di allacciamento fra le varie generazioni è riuscita alla perfezione, ed è la conferma di una delle grandi capacità di questo festival: riuscire ad aprire canali di dialogo, a costruire ponti generazionali. E, soprattutto di questi tempi, non è affatto poco.
Gianluca De Rubertis
Che effetto ti fa essere in un cast del genere e, soprattutto, dal momento che rappresenti una generazione “altra” rispetto a quella di riferimento del Festival, come vivi la tua generazione artistica? C’è qualcuno, oltre a Brunori Sas, che è recentemente apparso nella nuova versione di “La violenza della luce”, con cui ti piacerebbe collaborare?
Intanto l’effetto è un effetto bellissio, come è sempre stato suonare, poi sicuramente questo è un frangente speciale, sono in scaletta con un sacco di persone che conosco già, un sacco di amici: con Bianconi ci conosciamo dai tempi de Il Genio, con i Baustelle si era spesso in ballo insieme, Fabi lo conosco da tanto, con Diodato ci siamo visti mille volte fra Milano e Taranto, con Joe ci ho suonato per diversi anni insieme. Chiaramente quando capita una scaletta così è ancora più bello, sublima la bellezza stessa di suonare, che di questi tempi non è esattamente all’ordine del giorno come cosa. Poi della mia generazione, mah… per dire, la collaborazione con Dario (Brunori, ndr) è uscita così, molto spontaneamente, con una telefonata, lui poi ha fatto le voci in Calabria e le ha mandate. È stato molto bello perché, al di là del fatto che avere il suo nome all’interno del disco sicuramente è una spinta importante, so per certo che lo ha fatto perché gli piaceva la canzone, non è un accostamento discografico e basta, è stata una telefonata fra amici che si è risolta con un “Mi piace la canzone, mi va di cantarla”. Tornando alla mia generazione, diciamo che non me la vivo, nel senso che sono molto concentrato su me stesso. E comunque considera che su questo palco, pur con leggere differenze anagrafiche, c’è davvero il meglio della nostra generazione: aggiungici Dente, lo stesso Brunori, gli Zen Circus, Le Luci della Centrale Elettrica e tanti altri. Ecco, è quella. Abbiamo fatto delle belle cose, sono convinto che ne stiamo facendo di più belle adesso, e spero che ci sia un ascolto, che a certe latitudini è quello che manca alla nostra generazione: abbiamo bisogno di un ascolto un pochino più concentrato, più attento. Però, per certi versi, è giusto così, non voglio rimuginare o borbottare: Lennon diceva che quando si fa musica, se fai ballare i ragazzini hai vinto. Discograficamente parlando, ma hai vinto.
Il tuo ultimo album si chiama “La violenza della luce”, e la prima volta che ho letto il titolo mi è subito balzata alla mente “L’ombra della luce” di Battiato, proprio come accostamento semantico, in qualche modo. C’è qualche rimando? Ci hai pensato un minimo?
Quando ho scritto questo disco, a tutto pensavo fuorchè a degli esseri umani miei colleghi- sempre ammesso che ci si possa sentire colleghi di Franco Battiato- e quindi mentre lo scrivevo, assolutamente no. C’è una canzone che, già durante lo svolgimento dei provini, alcuni amici mi dicevano potesse avere delle aderenze, ma è comunque una cosa che ritorna puntualmente già dal secondo album de Il Genio, per dire: ricordo una volta, durante una intervista, che ci fecero proprio fare delle domande a Battiato, sull’utilizzo dei sintetizzatori e roba simile. Tornando a noi, una canzone più nello specifico, però, che è accaduta in una circostanza abbastanza particolare, che per me è strana, quasi misterica: ero a Milo, a casa di un amico cantautore, e mi disse che stavamo proprio a cento metri da casa di Franco Battiato, e io quasi non ci ho neanche fatto caso. Però quella notte là nacque “Pantelleria”, la mattina mi sono svegliato che avevo già la canzone nel cervello, scritta praticamente del tutto, cosa strana, capita molto raramente. A detta degli altri è la canzone più pregna di riferimenti, anche stilistici, in qualche modo, e questa cosa mi ha sempre colpito molto. Però devo dire anche che Battiato l’ho conosciuto meglio da due/ tre anni a questa parte. Diciamo che, chiaramente, conoscevo le canzoni che conoscono tutti, però in maniera più precisa, più filologica, l’ho scoperto, credo, anche dopo aver scritto “Pantelleria”: mentre conosco molto meglio un Paolo Conte o un Piero Ciampi, Battiato l’ho approfondito dopo.
“Voi, mica io” è il pezzo del disco che mi è piaciuto di più, credo anche perché si avvicina di più ai miei ascolti abituali, ma, per dire, a livello di testo, è un pezzo diretto, molto schietto. E quindi intanto quanto è importante esporsi nelle canzoni, e- domanda quasi collegata- c’è, secondo te, un legame fra la canzone e la poesia?
Per me è un dato di fatto che la canzone sia una forma di poesia, poi viviamo nel momento storico più antipoetico di sempre: tolte le canzoni, tolta la forma artistica nata nel secolo appena trascorso, se parli di poesia pura, non credo ci sia praticamente più l’ascolto dei poeti. Magari ci sono anche quei pochi pazzi che si riuniscono a sentire un poeta che legge, ma in una dimensione più larga, questo esercizio di ascolto poetico è completamente andato a puttane. La verità è che la poesia non può andare a puttane, la poesia non è quello che scriviamo noi. La poesia è l’unica cosa vera che c’è, la scienza in confronto è una fandonia. Lo diceva magnificamente Elliot: la poesia, rispetto al determinismo scientifico, non arriverà mai ad una scoperta che metta la parola “fine” su un qualsiasi argomento. La poesia dice sempre qualcosa di nuovo, ha la capacità di perforare il linguaggio, di essere completamente verticale, abbattere e azzerare tutte le narrative, tutti i discorsi, tutte le stronzate che non facciamo altro che raccontarci dalla mattina alla sera. Ecco, la poesia è l’unica cosa in grado di penetrare il linguaggio, come un enorme, gigantesco cazzo. Per cui, intanto associata alla musica, resta senz’altro poesia. Poi, chiaramente, per dire, faccio un esempio molto personale: “Pop porno”, l’ho scritta io, è un tipo di canzone, mentre un’altra canzone ha una capacità diversa, più trasversale, di entrare nel linguaggio e di farti arrivare delle cose che ti colpiscono più addentro. Ma la sensazione è sempre più importante della constatazione di come stiamo: descrivere come sto sono parole inutili, la sensazione è indescrivibile. Paolo Veronesi, ad un incontro con Carmelo Bene, disse una cosa che anche lo stesso Bene gli riconobbe come geniale, si parlava proprio di sensazioni, e portò come esempio quello di descrivere un triplo salto mortale: ecco, un conto è che lo vedi, un conto è che te lo trovi scritto sul giornale, tipo “C’è un uomo che fa una piroetta ecc. ecc.”, quella descrizione lì è l’uccisione di quel gesto: non visto, quindi tolta la sensazione, non resta nulla, restano soltanto parole sterili, aride, che non hanno nulla a che fare con la poesia.
Massimo Cotto
Quasi la stessa domanda fatta a Gianluca, ma vista da una prospettiva diversa: come vivi questa generazione artistica, che paga quasi dazio di un reiterato sentirsi dire che non c’è più buona musica italiana in circolazione?
Beh, ci sono tante cose da dire, prima fra tutte che noi rincorriamo costantemente il mito dell’eterna adolescenza, per cui tendiamo a pensare che la musica che ascoltavamo a diciott’anni sia stata e sempre sarà la migliore in assoluto. Questa è una deformazione che deriva dal fatto che noi non pensiamo realmente che quella fosse la migliore musica, ma che, più che altro, sono stati i migliori anni della nostra vita. Dopodichè, oggi si fa tantissima buona musica, che però stenti di più a emergere a un livello tale da poter garantire la sopravvivenza agli artisti. È chiaro, poi, che questo Festival si riferisce in prima battuta alla generazione emersa artisticamente negli anni ’90, quindi una generazione che già aveva più difficoltà rispetto a chi era venuto prima, ma che riusciva ad avere ancora un certo trattamento e che, soprattutto, non risentiva di nessuna contrazione del mercato che metteva tutto in difficoltà. Oggi è molto più difficile, pensa alle case discografiche, che non ragionano più in termini di carriera, quanto, piuttosto, in termini di brano singolo, quasi sempre liquido, nemmeno su supporto fisico. Questo ha determinato uno stravolgimento dell’impostazione da parte dei ragazzi, che pensano che tutto si debba ottenere rapidamente perché poi non c’è abbastanza tempo per crescere. In più aggiungo che molti giovani hanno sbagliato, confondendo il mezzo con il fine: la televisione non è il traguardo da raggiungere, ma il veicolo che dovrebbe portarti ad una carriera musicale più rapida.
Le generazioni di La Crus, Marlene, Afterhours, e poi anche quella degli Zen Circus e di Motta, hanno raccolto definitivamente i loro frutti andando a Sanremo: si può considerare una sorta di bug del sistema? E ancora, la liaison fra il carrozzone pop per eccellenza e il mondo underground avviene ancora troppo poco, o i passi avanti sono comunque notevoli?
Guarda, ti racconto questo particolare: io ero direttore artistico di Area Sanremo, ed avevo invitato Cristiano Godano a tenere dei corsi, temendo, fra l’altro, che potesse dirmi di no, proprio trattandosi di Sanremo. Alla fine della sua lezione mi chiese se potessi presentarlo a Pippo Baudo, che era conduttore di quel Festival, mi sembra fosse il 2009, dicendo che ai Marlene sarebbe piaciuto andare a Sanremo. Ecco, la mia prima reazione fu, non dico proprio di shock, ma quantomeno di straniamento. In realtà la dimostrazione che lui aveva ragione è che a Sanremo tu vinci se sei te stesso: se vai e porti una canzone “sanremese”, con cui svilisci tutto quello che hai fatto prima, quindi cambiando radicalmente il tuo percorso, dai l’impressione che vuoi ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Se invece vai e fai te stesso, magari riesci anche a prenderti la vetrina giusta e, non per allontanarci troppo, ma penso anche ai Negramaro, che sono andati fuori subito, ma che sono riusciti poi ad imporsi. Sai, quando c’è crisi, vetrine come quella di Sanremo rimangono straordinarie, perché fai tutto un lavoro che altre persone riuscirebbero a fare in un anno, per dire. Quindi, ecco, non esiste più quella forma di snobismo- giusta o sbagliata che fosse- che il mondo indipendente aveva verso Sanremo. Anzi, ti dirò, trovo molto peggiori alcune ospitate a talent televisivi, per altro con delle dubbie interpretazioni.
Articolo del
20/09/2021 -
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