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Pontiak
Live @ Largo Venue, Roma 11 marzo 2019
di
Giuseppe Celano
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Discutere di musica e raccontarla sembra spesso inutile, le parole per quanto efficaci risultano incapaci di raccontare le emozioni di uno show. Il gap si amplifica nel caso di alcune band e fra queste ci sono i Pontiak, progetto nato dal felice trittico dei fratelli (Carney) dal pelo rosso e dal suond ferino.
Puro hard rock di matrice seventies quello dei virginiani di scena al Largo Venue. Ciò che lascia di stucco è l’acustica del locale, pressoché perfetta. Era dai tempi di Stazione Birra che un live non si sentiva così bene, nessuna compressione, nessuna distorsione da picchi, impianto e fonico impeccabili per un concerto duro e compatto come un macigno.
I tre farmer producono un set incandescente fatto di stacchi e ripartenze verticali, virate soniche da cardiopalmo e sezione ritmica al pari di una macchina demolitrice. Suonano come un mattatoio a conduzione singola, fra svisate psicotrope e sprangate sui denti senza il benché minimo sforzo, forti dell’ultimo Dialect of Ignorance che raccoglie quanto di meglio hanno fatto con una serie di citazioni colte e richiami raffinati.
Analogici e acidi, sono accolti tutte le volte con fervore e ammirazione dai presenti per la credibilità costruita lentamente attraverso il sodalizio con la Thrill Jockey. Sono amanti della buona vodka e di una vita lontana dalle mode e dai ritmi infernali della città vivendo dentro una comune in cui fabbricano dischi e producono birra sfoggiando un look di barbe e capelli, pochi in verità, impazziti.
Iniziano per le 22.45, con immancabile rito del bicchiere bevuto a goccia per brindare all’evento, e non ce n’è per nessuno. Rifferama tagliente, basso propulsivo e pelli indomite. Si va da We’ve Got It Wrong passando per North Coast inseguita da Surronded by Diamonds e flagellata dall’altrettanto potente Shell Skull. Deflagrano con Innocence e Lions of Least tanto da sembrare in acido ma senza la necessità di assumere sostante chimiche per sconvolgere la mente e il corpo, ottengono lo stesso effetto attraverso un muro di suono plumbeo.
Sono MAESTRI, c’è poco da fare e assolutamente pochissimo da dire. Potremmo usare complessi artifici e non riusciremmo ad avvicinarsi neanche lontanamente alla potenza espressiva del loro set, fatto di voci capaci di ficcarsi fra le rade pieghe del sound monumentale (Ignorance Makes Me High). Travolgono con la reiterativa e ipnotica Tomorrow is Forgetting chiudendo con tre encore, Wildfires, Expanding Sky e Ghosts che nulla tolgono o aggiungono allo show, non per mancanza di qualità ma perchè il combo ha vinto a mani basse dopo solo due pezzi. Se vi state preoccupando dello stato di salute del rock basta presenziare a un live set e avrete una risposta inequivocabile
Articolo del
14/03/2019 -
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