Dylan al Beacon Theatre è il maestro che torna a casa perché, anche se Broadway non è il Village, sulle strade di New York ci sono tanti risvolti, corsi, ricorsi e ricordi del tesoro dylaniano.
Il concerto di Bob Dylan a New York, il quarto dei 7 che ha tenuto a novembre al Beacon, sapevamo ancora prima di entrare a teatro, non sarebbe stato il suo abbraccio al pubblico newyorkese, così come sicuramente non lo sono stati gli altri 6. Dylan non ammicca, non vuole accattivarsi le simpatie del pubblico, a dire la verità neanche saluta o ringrazia per gli applausi. Ma questo lo sappiamo da anni, c’è davvero bisogno di ribadirlo?
Lui è sul palco di questo teatro da quasi tremila posti lungo Broadway, non per celebrare il suo mito, come vorrebbero in tanti anche tra quelli che stasera hanno pagato il biglietto e, al suo ingresso in scena accompagnato come di consueto da una band dal sound sopraffino, caldo, legni ed elettricità insieme in un mix delizioso, si alzano in piedi ad accogliere la leggenda che si palesa ai suoi discepoli: niente di più lontano dalla verità. E Dylan è qui solo per quella. E la verità è un musicista che ha rivisitato ancora una volta un pugno delle sue canzoni, per farle suonare per l’ennesima volta diverse, nuove, imprevedibili, vive.
E se alcune come Highway 61 o Simple Twist of Fate richiamano evidentemente l’eco della loro versione originale, e altre si distaccano solo per un cantato strascicato ed un incedere sghembo ma incalzante, dalle versioni studio di non troppi anni fa (come l’iniziale Things Have Changed) altre ancora partono da un piccolo frammento, un’intenzione che avevano già nella versione in studio, ma se ne distinguono acquisendo un’altra vita, ovviamente difficile da assimilare in pochi minuti, ma con una propria identità e una forza tale che si reggerebbero da sole anche se quell’originale non esistesse. Così Like a Rolling Stone ridiventa monumentale anche in questa nuova veste, mentre All along the watchtower si stenta a riconoscerla ma ha un fascino misterioso, e Blowin’ in The Wind che chiude la scaletta, in qualsiasi versione nasconde la sua forza iconica epocale.
Lui non concede nulla al facile consenso, con il suo cantare ostico, mai lineare, a cercare nuove melodie, non facili neppure per i brani incisi e pubblicati più di recente (nessuno dagli ultimi dischi nei quali riprende il canzoniere dell’epoca di Sinatra, che aveva fatto credere qualcuno che fossero davvero un tributo al grande Frank): soprattutto i brani ripresi da Tempest si prestano alle atmosfere di questi concerti, con la pedal steel guitar che detta spesso le trame, e la sezione ritmica che asseconda la voce non più agilissima ma profonda, da crooner.
Se quindi il concerto di Bob Dylan a New York non è troppo diverso da quello che potrebbe essere stasera a Roma o Londra, è sicuramente il pubblico che cambia. E lì la differenza la fa una platea che scrutiamo con attenzione dal nostro posto in galleria: tra i volti di chi si siede qui stasera, magari c’è davvero qualcuno che 50 anni fa era qui in città ad applaudire colui che in tanti pensavano cantasse la voce di una generazione.
O forse non è così, e in pochi lo hanno seguito fin qui nelle sue mille trasformazioni e cambiamenti, nel suo cercare sempre una nuova voce, in tutti questi anni. Eppure quando attacca con Don’t Think Twice, in una versione comunque non troppo irriconoscibile, la signora davanti a noi che si lascia sfuggire a voce alta un “All right, Bobby”…con quel vezzeggiativo, il commento che sembra nascerle spontaneo quasi arrivasse davvero da lontano, da tanti anni fa, è bello credere che sia il commento di chi in cuor suo sa che in tutti questi anni, con tutte le sue manie, fissazioni, pochi compromessi, beh…in quel “Tutto bene, Bobby” ci fosse il ringraziamento sincero di chi sa che Bob Dylan in fondo non ha mai tradito
Articolo del
08/01/2019 -
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