Springsteen on Broadway è l’uomo Bruce che si racconta, ma è anche l’artista Springsteen che mette in scena uno spettacolo nudo e sincero sulla sua vita come musicista, figlio, padre, amante, amico, uomo con i propri sogni, successi, le proprie debolezze, i propri demoni, i ricordi che ti vengono a cercare nel bene e nel male.
Siamo andati a New York a vederlo, per capire se davvero Bruce Springsteen, la rockstar che riempie gli stadi, fosse in grado di riempire di sé il piccolo teatro di Broadway. E il Walter Kerr Theatre, con i suoi neanche mille posti a sedere, tutto esaurito per cinque sere a settimana da oltre un anno a questa parte e fino al prossimo 15 dicembre, quando lo spettacolo vedrà la sua ultima replica (senza aver mai varcato non solo i confini d’America, ma neppure quelli del prescelto teatro newyorkese), ci ha accolto col calore della semplicità e il fascino delle sue poltroncine rosse, una sobrietà appena smossa dalle insegne che campeggiano all’ingresso sulla quarantottesima strada, che con i loro led luminosi gialli, bianchi e blu, avvertono che a pochi passi da Times Square sta succedendo qualcosa di mai visto prima.
Entriamo, il palco è scarno nella sue essenzialità: un pianoforte, l’asta col microfono, un paio di sgabelli, qualche case bauletto a fondo scena e qualche cassa monitor. Springsteen entra in scena intorno alle 20.15, imbraccia la sua nera Takamine e in pochi secondi ci porta nel suo mondo, nel suo racconto, partendo proprio da quella sera in cui vide per la prima volta Elvis in tv. E da quel momento per lui niente fu più lo stesso. E neppure per gli spettatori del Walter Kerr niente è più lo stesso dal momento in cui mette piede in scena l’uomo del New Jersey: per due ore siamo sulla strada o in soggiorno, nella cucina sul retro della sua vecchia casa, o su una infinita highway che porta verso il deserto, con Bruce che si racconta, ci racconta di sé, del suo rapporto conflittuale fatto di odio e amore amaro col padre, della madre vera luce danzante nella sua vita di bambino e ragazzo prima e uomo poi, della sua storica banda la E Street Band, di come quando scatta la magia nella vita o nella musica due più due debba fare tre, dei compagni persi per strada, del suo amico di sempre Clarence Clemons (“perdere Clarence è stato come perdere la pioggia”), della difficoltà nell’affrontare responsabilità, crescita, perdita di innocenza, il rapporto col proprio paese e le sue contraddizioni. Dopo oltre 200 repliche è sorprendente come Springsteen abbia acquisito disinvoltura e sicurezza in un mestiere non propriamente suo: lo storyteller, il musicista, il cantante si alternano infatti con l’attore, capace di gestire con una mimica facciale e corporea stupefacenti, confidenze, storie, il palesarsi dei ricordi, quelli divertenti e quelli più difficili da confessare, la gioia, lo spirito di strada, il senso di fratellanza, i demoni interiori. La sua presenza scenica come sempre è disarmante, ci lascia ipnotizzati a fissare ogni suo movimento, ogni suo gesto, ogni spostamento dal centro del palco verso il pianoforte e viceversa. Strappa applausi ma anche risate e sorrisi da un audience che forse non si aspettava di trovarsi di fronte un mattatore da teatro, capace di portarci in un secondo dal cortile di casa sua verso la California in una corsa senza pausa di tre giorni con i suoi amici di sempre a fine anni ’70, o farci piombare nel dramma del Vietnam vissuto prima da riformato e rivissuto a metà anni ’80 con il suo pezzo probabilmente più conosciuto, Born in the USA, nell’eterno incubo di “chi sarà andato al posto mio, perché qualcuno sicuramente l’ha fatto”.
Manca purtroppo Patti Scialfa, compagna di Bruce da trent’anni, e rimasta a casa perché non al meglio questa sera, e per la quale di solito la scaletta prevede due brani a due voci. Non manca però il riferimento all’esperienza di coppia, ai dubbi e alle gioie di padre e ad una bella esecuzione di Long time comin’.
Si perché i racconti e gli aneddoti sono giustamente alternati alle canzoni, poche, riadattate, riarrangiate in versione acustica, con pianoforte o chitarra (quest’ultima con un suono eccezionale: al primo accordo della serata, per l’iniziale Growin’ Up sembrava ci fosse un’orchestra). Una decina di canzoni scelte dal suo repertorio tra quelle che potevano raccontare i frammenti della sua biografia, quindi non per forza le più belle. Eppure non mancano Thunder road, come sempre intensa, carica di tutto il suo significato anche nell’intimità di un piccolo teatro a Broadway; Born to run in una versione più drammatica ma sempre epica; la già citata Born in the USA, in una lancinante versione praticamente solo voce, introdotta dalla slide sulla 12 corde; e l’accoppiata The Rising/Land of Hope and dreami con Bruce che nel parlato che le precede non si sottrae alla propria coscienza di americano deluso dal vento che soffia sopra il suo paese.
Si resta rapiti di fronte al suo padroneggiare la scena, il suo muoversi e parlare talvolta lontano dai microfoni, quasi a voce viva, neanche fosse davvero un attore consumato. Ogni tanto, se proprio vogliamo trovargli un paio di difetti, esagera forse nell’esasperare qualche accento o risvolto comico (ma è irresistibile quando scherzando ma non troppo, dichiara che prima di lui il tanto decantato Jersey shore era poco più di niente concludendo con: “I invented Jersey shore!!!”), e un paio di esecuzioni al pianoforte suonano un pochino meno convinte del resto, quasi affrettate per poi riprendere il racconto. Ma bisogna sforzarsi tanto per disunire l’unicum di questo spettacolo in particolari o dettagli isolati, così carico com’è nell’emozione e nella sostanza complessiva, a dispetto dello scarno contesto scenografico.
Il protagonista sul palco cerca quanto più possibile il contatto diretto senza filtri con la platea, con noi che cerchiamo di catturare con la mente ogni istante, e c’è chi in un paio di occasioni completa la battuta di Bruce, a dimostrazione che alcuni hanno visto questo spettacolo più di una volta, e del fatto che anche il pubblico cerchi il dialogo appena possibile, abbattendo di fatto la quarta parete come sempre accade quando sul palco c’è Springsteen. L’uomo prende a braccetto l’artista e viceversa nell’arco delle due ore, in una comunione di intenti che confonde la percezione della finzione, ma solo per lasciare in chi assiste la sensazione che sia tutto clamorosamente unico, sincero. Ecco perché Springsteen On Broadway in definitiva è qualcosa a cui neanche il fan più accanito in decine, centinaia di concerti in giro per il mondo può aver mai visto, e siamo certi sarà ricordato come una vetta emozionale che Bruce Springsteen non aveva mai raggiunto
Articolo del
13/12/2018 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|