Sebbene la Seconda Guerra Mondiale sia finita da un bel pezzo, loro non hanno ancora firmato nessun trattato di pace con la Germania. Vengono dalla lontana Tuva, una regione siberiana ai confini con la Mongolia, si chiamano Huun-Huur-Tu e in concerto dal vivo suonano a cantano cose straordinarie. Il loro canto armonico, figlio di una tradizione secolare dell’Asia Centrale, nasce dal profondo rapporto che li lega al Cielo e alla Terra, in un contesto naturale aspro e difficile, ma anche molto evocativo.
Eccoli che arrivano puntuali sul palco del festival di Villa Ada, incredibilmente austeri e con un tratto di mistero, avvolti come sono nei loro costumi tradizionali. Il gruppo si compone di quattro strumentisti che si alternano al canto e che rispondono ai nomi di Kaigal-Ool Khovalyg, Radik Tyulyush, Alexey Saryglar e Sayan Bapa. Cantano la vita, la morte, l’amore e il dolore, ma anche i fiori e i monti della loro terra, con una tecnica vocale del tutto particolare, frutto del rapporto continuo con i viaggi in alta quota, sulle vette delle montagne, dove si siedono, modulano la loro voce con il vento, con l’eco e mettono a punto risonanze tali da far venire i brividi a chi ascolta. Sono tutti e quattro specializzati nel throat singing, una tecnica che permette loro di emettere contemporaneamente la nota e il tono armonico ad essa relativo, creando così delle sonorità uniche, molto coinvolgenti, ricco di armonie che si dipanano sia in bassa che in alta frequenza.
Il gruppo è attivo da molti anni e gira il mondo per far conoscere la loro cultura tradizionale. I canti non sono religiosi, in senso stretto, ma contengono elementi di una spiritualità solida, legata al territorio, alla loro gente. Utilizzano strumenti tradizionali come l’igil, il byzaanchi, il khommuz, il doshpuluur e il tuyug e da anni si dedicano al recupero di melodie antiche. Quando Alexey si rivolge al pubblico, in inglese, racconta parte della storia di un popolo nomade e del loro rapporto simbiotico con il cavallo, che non è solo un mezzo di trasporto, ma un compagno di vita, anche dopo la morte. Infatti, le corde degli strumenti degli Huun-Huur-Tu sono fatte di crine di cavallo e ancora la cassa di risonanza delle percussioni è ricoperta da pelle di cavallo.
La “performance” della band è accolta con favore dal pubblico presente questa sera: c’è attenzione, c’è silenzio e tanto rispetto nell’ascoltare sonorità tanto antiche ma che si sposano bene con certi aspetti dell’avanguardia minimalista moderna. Un brano come “The Orphan’s Lament”, per esempio, favorisce la meditazione e sono in molti quelli che si sdraiano sull’erba e si lasciano trasportare da quelle melodie ancestrali, forti e vibranti. Ed è proprio allora che la musica diventa cultura, supera le differenze etniche e i diversi confini nazionali per diventare un elemento universale di conciliazione
(foto di Viviana Di Leo)
Articolo del
01/08/2018 -
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