Nonostante il sold-out di questa edizione e la presenza massiva di orde inferocite di risvoltini, devo tristemente ammettere che il MI AMI 2018 non è riuscito ad emozionarmi. Lo so lo so, sono solo una voce (o una penna) fuori dal coro, la classica pecora nera disfattista e invidiosa di cotanto successo, una snob che critica l’attuale panorama indie italiano. Invece caro lettore, amante di Calcutta e di Galeffi, ti sbagli. Anche io ero al MI AMI quando Tommaso Paradiso (e non me ne faccio un vanto sia chiaro), si è buttato dal palco passando sulla folla di mano in mano e, pensa, c’ero anche quando gli Zen Circus se la suonavano ignari del grande successo che da lì a poco li avrebbe portati in tour per quasi 4 anni di seguito.
Caro amico indie, Il punto è, secondo me, che c’è un tempo per tutto. C’è un tempo per l’esposizione costante ai testi banali dei nuovi di turno, che omologano i cervelli senza dire niente di nuovo, così come c’è un tempo per le canzoni in copia carbone. Questo non è più il tempo, almeno per me, di parlare di musica indi(e)pendente che di indie in verità, non ha nemmeno l’odore. Il MI AMI di quest’anno mi ha resa malinconica, forse perché sono invecchiata della serie “non è tempo per noi”, ma vagando per i tre palchi mi chiedevo dove fosse questa novità, questa indipendenza musicale, questa sonorità che dovrebbe far vibrare i timpani ed emozionare.
Purtroppo l’unica cosa che la mia mente e le mie orecchie sono riuscite a sentire è stato lo sconsolata eco della banalità. Ciò che contesto al MI AMI “club” non è tanto il programma che, salvo davvero pochi nomi, mancava di originalità, ma il fatto che forse a voler essere grandi si rischia di cadere nel baratro delle ovvietà e del compromesso. Sarò romantica che ci vuoi fare, ma io non voglio credere che ciò che la nuova musica italiana ha da offrire sia tutto qui
Articolo del
05/06/2018 -
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