Motta si presenta sul palco di Villa Ada alle ore 23.25, e la lunga attesa sarà l’unica nota davvero negativa del concerto romano di uno dei musicisti italiani più interessanti degli ultimi anni, e probabilmente il più interessante della nuova generazione dei cosiddetti indie. La prima immagine che ci viene in mente in realtà è del finale di concerto: coda strumentale de La fine dei vent’anni, lui abbandona la scena, per qualche secondo, rientra sigaretta tra le dita in una mano e bicchiere di birra nell’altra, e si posiziona a bordo del palco, al centro, ma talmente avanti che è fuori dalla linea della luci, in penombra, braccia incrociate, quasi rilassato, pensoso, apparentemente assente, fuori dalla scena, anche se davanti a tutti. Francesco Motta è uno fuori dai suoi stessi schemi, a voler vedere bene, e a Roma ha chiuso un lungo tour di oltre cento date nell’ultimo anno. Prima di lui un bellissimo set dell’ottimo Paolo Benvegnù, che propone alcune cose dal suo nuovo lavoro H3+, e alcuni suoi classici tra i quali una trascinante Suggestionabili. L’artista milanese raccoglie tantissimi applausi pur non essendo in sostanza il nome di punta della serata. Eppure i suoi quaranta minuti sono davvero notevoli: gran suono, strumenti ben definiti, canzoni solide, e interpretate benissimo con voce decisa, ferma, tutto sostanza e personalità. Dopo i saluti di Benvegnù, e dopo circa un’ora di attesa, giustificata solo parzialmente da un problema tecnico ad una delle tastiere sul palco, ribadito che l’idea che i concerti son più fighi se iniziano tardissimo sembra essere rimasta un’idea tutta italiana, ecco il protagonista più atteso, e bastano pochi secondi a Motta per far dimenticare ai tantissimi presenti, il ritardo: l’attacco di Se continuiamo a correre, è potente, deciso, aggressivo, e il concerto prende subito la piega giusta.
Pattern ostinato di batteria, bassi corposi, andamento quasi tribale, il cantante/autore nato a Pisa ma di origini livornesi (e da qualche anno stabilitosi a Roma) si presenta sul palco con la sua tipica andatura dinoccolata e la caratteristica sagoma un po’ da fumetto: alto, secco, maglietta nera e jeans, l’inconfondibile cespuglio di capelli ricci che gli coprono il volto e tra i quali sbucano gli occhi enormi, spalancati sul suo pubblico e sulla sua musica che incalza. E’ incontenibile! Salta, si piega, alza le braccia, batte le mani, non sta fermo un attimo, e a parte due tre brani con la chitarra a tracolla, eccolo su e giù lungo il palco, a incitare il pubblico, incitare la band, avvicinare uno per uno i componenti di quella che lui stesso definisce la sua famiglia (e che ringrazierà a più riprese durante il concerto, “li ho scelti in dieci secondi”: Cesare Petulicchio, batteria ed elettronica; Federico Camici, basso, Giorgio Maria Condemi, chitarra; Leonardo Milani (tastiere), per battere un cinque, per un abbraccio, o per saltargli sulle spalle, come farà in un paio di occasioni nel corso della serata col suo chitarrista.
Motta è tutto in questi poco fotogrammi ma non sarebbe lui senza quel cantato quasi sgraziato, tagliente, acuto, che lacera i testi, li sbatte in faccia quasi con allucinata ironia, per poi magari ogni tanto afferrare le bacchette e suonarle con forza e rabbia su un rullante, durante le lunghe fughe strumentali che caratterizzano molti brani, ricordando di essere stato anche un batterista nella sua precedente band dei Criminal Jokers.
Quella di Villa Ada, come detto, è stata la sua ultima data prima di un lungo stop durante il quale sarà impegnato nella registrazione del suo secondo disco, prodotto dalla Sugar, e che sancirà quindi il suo passaggio ad una major, a poco più di un anno dal suo esordio. Sono quindi le canzoni del primo lavoro, La Fine dei vent’anni, che ha vinto tra l’altro la Targa Tenco 2016 per la migliore Opera Prima, le protagoniste del concerto romano. Snocciolate in una sequenza differente rispetto al disco, in alcuni casi valorizzate dalla esecuzione live che ne esaspera l’anima sognante, come in Prima o poi ci passerà o Abbiamo vinto un’altra guerra, in altri fin troppo dilatate (forse anche per l’esigenza di portare a casa i quasi novanta minuti di scaletta, bis compresi), le canzoni di Motta rivelano l’artista che trae linfa vitale e ispirata energia da una performance carica, su di giri, pregna di entusiasmo.
La risposta del pubblico è molto positiva, c’è la gente che ci aspettavamo, tanti ventenni, ma anche qualche over quaranta incuriosito e divertito. Ovviamente la platea si accende soprattutto su alcuni titoli, come Sei bella davvero (“veramente non mi aspettavo che le persone si scioccassero, nel 2017, per una persona che scrive di una donna transgender”) o La fine dei vent’anni, che racchiude in pochi minuti una buona fetta della dimensione artistica di Motta: la realtà personale raccontata per flash onirici e ironici, spiazzanti, ma spesso sfacciatamente semplici, quotidiani, immediati. Un’altra sua dimensione, quella più rumorosa, psichedelica diventa travolgente in altri brani come ad esempio nel crescendo di Del tempo che passa la felicità.
La quasi ingenua capacità di raccontare per immagini, paradossi visivi, scene del quotidiano sporcate dall’assurdo, è un marchio efficace dove ripetizioni sia di testo che di frasi musicali diventano come dei mantra sonori. Lo si avverte anche a Villa Ada, dal coro dei tantissimi che sanno quasi tutte le canzoni a memoria. Su tutto aleggia la mano sapiente di Riccardo Sinigallia, produttore del disco, e coautore di diversi brani, che lo stesso Motta ringrazia a inizio concerto.
C’è spazio per due brani Bestie e Fango che l’artista toscano ironicamente chiama “cover” del suo primo gruppo, i Criminal Jokers, con l’ospitata alla chitarra del compagno di strada per dieci anni, Francesco Pellegrini. Dopo un’ora di concerto, e un saluto con sigaretta e birra tra le mani, arrivano quasi obbligati i bis. L’ipnotica Roma stasera, sporcata di suoni del Mali, altro brano in perfetto stile Motta, gridato e lacerato in una versione bella satura. Un po’ come la successiva Abbiamo vinto un’altra guerra: due brani che mostrano le grandi qualità di scrittura ma anche il possibile limite, con l’impronta del cantato, della melodia, dell’intenzione, che richiamano quasi suggestivamente un brano all’altro, in un rincorrersi che alla lunga potrebbe anche risultare ripetitivo.
Nella conclusiva Prenditi quello che vuoi, con un crescendo pulsante tra tastiere, chitarre, sequencer e seziona ritmica, differente rispetto al disco, potrebbe esserci una delle tante idee per il futuro di questo promettente cantautore non allineato ad un genere o ad uno stile già visto o sentito. Un talento, Francesco Motta, che passato adesso in casa Sugar, potrebbe riservare altre belle sorprese. Il funambolo sognante, e la sua musica straniata e straniante, alla corte di una major. Teniamolo d’occhio
Articolo del
27/07/2017 -
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