Provengono dal Nottinghamshire, contea che vide le gesta di Robin Hood e come lui - a distanza di secoli - si battono a favore degli oppressi, di quanti non hanno voce, e soprattutto neanche un lavoro, nel Regno Unito di adesso.
Si fanno chiamare Sleaford Mods e incarnano nei loro volti e nel loro modo di essere gli stilemi più sinceri dell’universo punk inglese. Sono soltanto in due: Jason Williamson, autore dei testi delle canzoni e “vocalist” della band, e Andrew Fearn, nel gruppo dal 2012, responsabile di musiche, electronic devices e campionature inserite nei singoli brani.
Tornano a Roma per presentare English Tapas il loro ultimo disco, ma in realtà un loro concerto si basa su un susseguirsi di brani, vecchi e nuovi, a velocità folle, che vengono fuori con veemenza dalla vocalità straniata, viscerale e volutamente contro di Jason, che si muove sul palco come un internato di una clinica psichiatrica e vomita parole (talvolta di difficile comprensione) nel dialetto tipico delle East Midlands inglesi.
Lo chiamano sprechgesang, concetto che viene dall’espressionismo tedesco e che identifica una forma di comunicazione che mescola la forma parlata e il discorso. Una sorta di rap elettronico che si sovrappone a citazioni punk (Sex Pistols sopra ogni cosa) che si riconoscono non soltanto nei sample che aprono diversi brani, ma nell’approccio dei due Sleaford Mods in scena. Se Andrew asseconda il ritmo delle canzoni a capo chino, quasi in disparte, nascosto dietro un computer, Jason si impossessa della scena e in pochi minuti trascina il pubblico dalla sua parte.
Non abbiamo a che fare con l’inglese che si impara ad Oxford o a Cambridge, ma con uno street language molto sguaiato e ricco di swearing (imprecazioni e parolacce). Ma almeno l’approccio è molto diretto, senza compromessi e maledettamente “in the face”.
Canzoni cupe, una base ritmica martellante, volutamente ossessiva, che si richiama a certe forme di minimalismo, ma lo toglie dalle mani degli intellettuali e lo consegna in modo esplicito all’estetica del Punk, abrasiva e ribelle.
Gli Sleaford Mods vengono dalla classe operaia e sono una delle risposte più convincenti alla crisi, all’austerità voluta dal governo inglese (andatevi a cercare Sleaford Mods: Invisible Britain, un film documentario uscito due anni fa). La rabbia di Jason che si contorce sul palco del Monk trasferisce in musica la protesta popolare contro Westminster, contro il capitalismo, contro l’arroganza della gente ricca, contro Nigel Farage (il leader populista dell’UKIP che si è battuto per la Brexit), contro le celebrità del cinema e della pop music, contro i finti alternativi e gli hipsters.
Gli Sleaford Mods sono stati spesso accusati di misoginia, è vero, e dobbiamo ammettere che non mancano - in alcune canzoni ascoltate questa sera - insulti diretti al genere femminile. Ma tutto va riportato al contesto e alla condizione sociale dei vari Jolly Fucker e Jobseeker, personaggi che sono all’origine delle loro composizioni.
La mancanza di mezzi, l’esclusione sociale spesso porta alla solitudine, all’estraniamento e allora le donne in carriera, eleganti e spocchiose, sempre trendy e distanti, possono benissimo diventare il nemico. Jason è un fiume in piena: un’ora e mezza di invettive non serve a placarlo. Trova le risposte che cerca nel pubblico di Roma (non molto, a dire il vero, mi aspettavo il sold out, ma non sono bravo nelle analisi sociali) e torna sulla scena per eseguire altri tre pezzi al grido di We are Sleaford Mods. E non può che essere così, perché sono facilmente identificabili: poco raffinati, antagonisti, orgogliosi e stradaroli, gli unici in grado di dare nuova vita alla stagione Punk! SET LIST Army Nights I Can Tell Britain Thirst Moptop Snout Carlton Touts Dull TCR Time Sands Routine Dean Jolly Fucker Drayton Manored Cuddly B.H.S.
ENCORE : Jobseeker Tied Up in Nottingham Tweet Tweet Tweet
(foto di Francesca Picozza)
Articolo del
03/06/2017 -
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