"Tutto ciò che spaventa aiuta ad allargare i confini della nostra consapevolezza, e a comprendere anche la paura…lo spavento è una cosa che ci educa, allarga il confine della stanza, ce lo fa popolare di creature. E la paura, invece, ce lo restringe moltissimo, e oggi la paura entra nelle politica, nelle case, nei discorsi, tutto è paura: paura di diventare poveri, paura di ammalarsi, paura dei terroristi, paura del diverso, dello straniero, tutto è basato sulla paura. Quindi il nostro piccolo spavento è proprio una cosa sana, ha un effetto pedagogico. Mentre è molto insano tutto questo dominio della paura”.
Un concerto di Vinicio Capossela non è mai solo una notte di canzoni o una buona occasione per presentare un nuovo disco. Da anni, forse da sempre, in scena sul suo palcoscenico si materializza un mondo fatto di personaggi, storie incredibili o quotidiane, abiti e oggetti di scena, ombre e luci, dialoghi e monologhi. E tutto, davvero tutto, concorre alla riuscita dello spettacolo o alla sua fuoriuscita dai binari del prevedibile. Uno scenario nel quale la musica permea di sé ogni anfratto del teatro o della locanda di turno, avvolge i costumi dei musicisti, la polvere e le ombre sul palco, un piccolo mondo dove tutto può sempre succedere, da un momento all'altro, da una sera all'altra. Niente è lasciato al caso, sempre secondo “il motto della ditta”, che ha ricordato lo stesso Capossela verso la fine della serata: “il massimo risultato con il massimo dello sforzo”. Le canzoni della Cupa, l’ultimo denso e prezioso lavoro discografico del grande Vinicio, era andato in tour già lo scorso anno, nella sua prima parte dal titolo Polvere: i canti della terra, del lavoro, dell’Irpinia, da tutto il meridione e da ovunque possa arrivare l’urgenza del ricordo, tra tradizione, rituali, sposalizi e funerali, braccianti e banditi, folk e folklore. Sempre a Roma, e questa volta all'interno della sala Santa Cecilia dell’Auditorium, per l'occasione esaurita in ogni ordine di posti, con la sua magnificenza, in un trionfo di legno e caldi colori, e la sua acustica quasi miracolosa, lo scorso 10 aprile si è chiuso il tour dedicato alla seconda parte del disco, “Ombra. Canzoni della cupa e altri spaventi".
L’ombra della cupa, dunque, la cupa: il lato scuro e oscuro della rupe, nascosto al sole, la contrada buia dove si celano i mostri, le creature della notte, tramandate dai racconti della tradizione a metà tra storia e leggende, ma anche l’ombra del nostro essere, del nostro divenire, il nostro io conscio di dover affrontare le proprie paure per conoscerle, finalmente riconoscerle, rendercele familiari, e imparare a conviverci. In sala il pubblico viene accolto dalla visione di un enorme telo a maglie sottilissime, praticamente trasparente che, calato giù dal soffitto a metà del palco, separa in apparenza la platea dai musicisti, e che resterà lì a creare un altro sfondo sospeso della scena per quasi tutto lo spettacolo. Dietro questo telo, poco prima delle 21.30, inizia il viaggio e con Le creature della cupa si apre La selva il primo dei cinque quadri in cui si divide la scaletta. Prendono il loro posto nella cupa: Asso Stefana a chitarra, banjo e armonio; Glauco Zuppiroli al contrabbasso; Peppe Leone alle percussioni e violino; Giovannangelo De Gennaro a flauti, viella, aulofono e “altri strumenti antichi”; Edoardo De Angelis al violino; Vincenzo Vasi alle percussioni, cymbalon e all’incanto magico del teremin.
Dietro il fondo scena, si presenta Vinicio di cui si riconosce solo la sagoma, la sua ombra, chitarra a tracolla e sulla testa un copricapo che è già racconto, fatto di legni di diverse fatture e dimensioni, una sorta di cristo che non cerca redenzione, o forse semplicemente spaventapasseri, o traghettatore, la cui luminosa oscurità proiettata sulla scena, è pronta ad accompagnarci nei meandri della cupa. E’ il primo presagio delle ombre che saranno protagoniste per tutto il concerto. E il primo invito ad abbracciarle.
Scorza di Mulo e Pumminale: Capossela canta con voce profonda, cupa appunto, pizzica le corde della sua chitarra acustica, anch'essa legna tra i legni. Il telo a metà strada tra platea e corpi sul palco si rivela piano del racconto, con un effetto scenico sorprendente e curatissimo: effetti di luce, proiezioni, suggestivi giochi di ombre regalano la magia di una scenografia a molteplici dimensioni, con un effetto scenico sorprendente e curatissimo. Ombra e luce hanno bisogno l’una dell’altra. L’auditorium, inizialmente è quasi letteralmente rapito, ammutolito: Maddalena la castellana, i presagi de La notte di San Giovanni, e le ombre di Salomè ed Erodiade che si maledicono per l’eternità, L’angelo della luce. Il racconto biblico si fonde con superstizione e racconto popolare.
E’ appassionato e ispirato il maestro Vinicio, nel suggerire il percorso, e si alterna tra chitarra acustica e pianoforte verticale, anch'esso poco illuminato, per non rubare la scena ai racconti, veri protagonisti, o impugna oggetti quotidiani, popolari, dal falcetto al vaccile nella cui acqua si può scrutare il destino. Il folk emerge potente e suggestivo da una band di altissima levatura: corde, percussioni e violino in evidenza, in un magma sonoro denso e profondo squarciato solo a tratti dagli acuti del teremin, sul solco del recupero della tradizione e della musica popolare, seguito ormai da qualche anno dal cantautore di origini irpine (indimenticabile, a questo proposito, il giro di concerti di un paio d’anni fa con la Banda della Posta). L’impasto sonoro si tinge a tratti di venature blues, in un mix suggestivo che accompagna i racconti, li contiene, li abbraccia assecondandone spesso i lunghi tragitti, i labirinti di parole, e anche i rimandi e le citazioni dei poeti della tradizione popolare del meridione come il grande Matteo Salvatore, da cui traggono ispirazione molte canzoni in scaletta.
Se c’è un limite nelle Canzoni della Cupa (e forse un po’ in tutta l’ultima produzione di Capossela) potrebbe essere un eccesso di verbosità, un colloquiare fin troppo fitto e dilatato; ma è un limite che diventa virtù nel momento in cui costringe l’ascoltatore ad uno sforzo di attenzione, di presenza consapevole, nel seguire il dipanarsi delle parole. Con La Bestia nel grano inizia il secondo quadro della scaletta, Sottoterra, il viaggio verso il regno oscuro delle ombre che spuntano dalle viscere o che alle viscere ci trascinano. La bestia è fisicamente sul palco con mani dalle dita lunghe e appuntite. Poi è il momento del Minotauro di Brucia Troia (il primo, e uno dei pochi, tra i recuperi dai dischi precedenti), con l’inconfondibile maschera. Capossela cambia copri-capo ad ogni brano e lo farà praticamente per tutto il concerto, indossando letteralmente i panni del-le sue canzoni. Con Vinocolo, la creatura ciclopica con un occhio solo, Dimmi Tiresia e Le Sirene, siamo dalle parti di Marinai Profeti e Balene, il cappello da capitano in testa in una sorta di incontro tra Moby Dick e un novello Odisseo/Ulisse.
E’ la fase più intima del concerto, il terzo quadro Lo specchio, il riflesso di quello che siamo stati, con Vinicio al piano che fa susseguire Parla Piano, Fatalità e l’inquieto magnifico tormento di Modì, che introduce al quarto movimento, : l’ombra che attraverso la propria forma lascia lèggere l’anima e rivela il non visibile. E' un omaggio a Modigliani, alle lanterne, ancora una volta ai giochi di ombre. Anche i brani in scaletta non tratti dalla Cupa, ne assumono i contorni e lo spirito: se non sono creature mostruose e notturne, sono i nostri demoni interiori ad essere protagonisti. Gli spaventi servono a tracciare un percorso possibile, ad indagare il nostro io. Il Corvo Torvo scivola nelle case, nei loro segreti, silenzioso e furtivo come un’ombra. Sul palco, nel frattempo, si susseguono gli effetti di luce, tra il telo sospeso a metà palco e quello a fondo scena (“noi avremmo voluto un piccolo teatro, magari come il piccolo teatrino cinese di C’era una volta in America, ma alla fine ci hanno allestito questa splendida mantide religiosa. O forse è un’astronave, con tutto questo legno….chissà che droga averà assunto Renzo Piano quando l’ha progettata!”).
Si alza l’asticella delle emozioni con Scivola vai via, e quindi con una sontuosa versione di Maraja, che anche senza i consueti fiati, rivela una magistrale grandezza, in una esecuzione maiuscola tutta pianoforte, corde e percussioni. Quando il dialogo con le ombre diventa il dialogo con la propria ombra come altro da sé ( strepitosa la trovata di far dialogare il protagonista in scena proprio con una sagoma ingigantita della propria silhouette) è tempo di tornare al paese, alla rinascita: dal folk della cupa, passando per le poesie su mari, balene e sirene, fino al malinconico ciondolare dei sentimenti nelle tenere ballate di passioni e tormenti, per poi riprendere la via del ritorno.
Ad aprire il quinto e ultimo movimento, Il peso dell’ombra, è il trionfo popolare di Sonetti, che sfuma nell'irresistibile coda di Pena dell’alma, che un Vinicio divertito fa cantare al pubblico in uno dei tanti momenti trascinanti di questa parte conclusiva della serata. Pettarossa e Lo sposalizio di Maloservizio introducono con enfasi e dissipazione al tema del distacco, del lutto: gli sposi che salutano per sempre la vecchia vita, che deve morire per poterne iniziare una nuova. Poi Capossela imbraccia l'organetto diatonico e invita il pubblico a lasciarsi andare davvero, a danzare sulle proprie paure mai dimenticate. E’ quasi tempo di festa. Con Il Treno, brano che chiude anche il disco Canzoni della Cupa, gli echi morriconiani, e una band sempre più ispirata, il viaggio si conclude per tornare all'origine, a ritrovare le nostre ombre, prima di lasciare andare il peso del corpo con uno sfrenato e sguaiato Ballo di San Vito, il canto liberatorio finale, e poter davvero ripartire.
Il telo divisorio, che ci ha fatto compagnia per tutta la serata, a questo punto viene lasciato cadere, in un trionfo di luce ad illuminare a giorno il palco, il pubblico lascia i propri posti e si precipita a bordo scena. Capossela presenta uno ad uno i membri della banda, i tecnici e tutti quelli che hanno contribuito alla riuscita dello spettacolo, si siede al piano per i bis finali (quaranta minuti!), sorseggia una birra (“io alla fine bevo solo sul lavoro”), e dopo un sentito ricordo del fischio di Alessandro Alessandroni, stende tutti con un omaggio alla musica per film e al cinema di Sergio Leone, con una commovente Dove siamo rimasti a terra Nutless mentre sullo sfondo dai colori di un tramonto rosso porpora si stagliano le sagome delle ombre cinesi, che sembrano danzare al ritmo di questa ballata dagli echi americani. Poi a seguire, in un clima ormai a metà tra il divertito e il malinconico per il tour che si va a chiudere, l’incanto di Con una rosa, il geniale spasso de Il paradiso dei calzini, pescata dal cilindro un po’ a sorpresa, e poi di nuovo la chitarra acustica e l’eco del viaggio per lo splendido congedo di Camminante, preceduta da un commosso ringraziamento a tutta la banda, a questa nuova famiglia che si è formata, nel cammino, appunto. E al pubblico, calorosissimo.
Siamo agli sgoccioli del nostro viaggio nella Cupa. E’ incredibile come il nostro Vinicio riesca a far vibrare tutto questo folklore di una modernità che sa di antico e contemporaneo allo stesso tempo. Lì sta la sua forza. Camminante è l’ultimo congedo, ennesimo bis di un concerto durato 2 ore e quaranta minuti. Una dichiarazione d’intenti a posteriori, ma anche il sigillo che sottende il sotto-titolo del racconto, lo sguardo senza nostalgia sul percorso già fatto, e con speranza su quello da fare. Non è un arrivo, ma la promessa che il cammino va avanti sempre: “Ho chiesto a quello che va per strada: Fratello, la tua strada dov'è? Non lo so io, ma lo saprà il vento, e mi sono messo davanti al soffio”. Con le luci ormai accese in sala, Vinicio Capossela con la sua banda saluta e ringrazia tutti, ci lascia la sensazione di un concerto memorabile, con la certezza, ancora una volta, che se c’è un gigante nella nostra musica, oggi è proprio lui
(foto di Antonello Cacciotto)
Articolo del
21/04/2017 -
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