Solo qualche settimana fa ricordavamo in una breve monografia la carriera dei New Order e dei Joy Division, protagonisti di un documentario su RaiPlay. E mentre i New Order si accingono a pubblicare un EP di remix e a partire per un tour negli USA, noi siamo andati a (ri)vedere Peter Hook, bassista e fondatore di ambedue le band di Manchester, che ormai da anni è in tour perpetuo con la sua band con tutto il loro repertorio.
Location più che accogliente quella del rinato Quirinetta che già un’ora prima dell’inizio dava segnali di gran pienone. E, nota personale, fra tutti questi abbiamo rivisto un bel po’ di facce già incontrate in tutte le occasioni precedenti in cui Hooky è passato per Roma.
Inizio previsto alle 23,30 e, inaspettatamente, prima delle 23,40 eravamo già all’ascolto di una intro, un brano strumentale di soli fiati (corni?) dal sapore un po’ demodé. Questo non ha fatto che segnare ulteriormente il passaggio ad una ritmica ben più puntigliosa e ad un’atmosfera più dark quale quella prospettata dal brano di apertura, In a Lonely Place, brano del 1981, ovvero del primissimo periodo della svolta post Joy Division, caratterizzato da una certa continuità dei suoni rispetto al periodo dominato dal frontman Curtis.
Il “tema” di questo tour (dopo aver riportato live prima tutti i successi dei Joy Division, album per album, e poi quelli dei New Order, almeno per il fortunato periodo di permanenza di Hooky nella band), è una ragionata coincidenza di titolo per due raccolte: Substance. La prima, pubblicata nell’87, compilation con tutti i singoli di successo dei New Order, seguita poi da una analoga dedicata ai Joy Division solo un anno dopo. Una setlist corposa (ben 31 pezzi), e scientificamente divisa in due parti distinte e separate.
Nella prima, l’impronta dark dei Joy Division è palpabile sui primi brani, per lasciare spazio a quella dance elettronica un po’ più happy che ha denotato l’evoluzione dei New Order, veri e propri precursori di un certo tipo di elettropop. Canzoni con un minutaggio medio più alto, riempito da infiniti giri strumentali e tanto synth, con poche parti cantate (abilmente lasciate alla cura di David Potts, chitarrista al suo fianco dal 2013, con una voce più vicina a quella di Sumner), che ha trascinato per qualcosa più di un’ora il pubblico a saltellare e ballare, sempre e costantemente accompagnati dal carisma di Hooky, che dal palco, con le sue pose divertenti e il basso messo di traverso, era li ad incitare tutta la prima fila e non solo.
Apice della partecipazione, almeno nella prima parte, l’arrivo più o meno a metà scaletta del brano Blue Monday che, se nella carriera dei New Order ha segnato il vero cambio di rotta nel sound, qui ha fatto da spartiacque e ha portato anche i più timidi a ballare.
Dopo una breve pausa fra il primo e il secondo tempo, si riprende con i suoni più crudi di No Love Lost: il giro di basso, la batteria (quella vera, di Paul Keohe), e le schitarrate. E’ qui che Hooky si è dedicato un po’ più intensamente a cantare, lasciando più volentieri le linee di basso al figlio Jack (ormai suo sostituto al 100% quando lui molla lo strumento e canta o fa le pose per il pubblico). Rientriamo quindi nelle atmosfere più cupe e a tratti lancinanti dei Joy Division, e paradossalmente questa è la parte di concerto più sentita dal pubblico che modifica le movenze: dai saltelli ai dondolii ad occhi chiusi.
Nonostante il numero di brani è più o meno uguale a quello della prima parte, complice la durata inferiore delle canzoni, più concentrate, questa fase sembra scorrere via più velocemente. Con una scaletta ben costruita, a circa metà cominciano a susseguirsi pezzi più che forti come Transmission e She’s Lost Control (di solito un’accoppiata letale) per poi arrivare, sempre in crescendo, al finale di Love Will Tear Us Apart.
Dopo un inizio in cui ci sembrava che Hooky fosse un po’ giù di voce, salvo poi capire che si era semplicemente preservato per la seconda parte, non c’è ombra di dubbio sulla piena forma di questo personaggio che, rievocando successi che tutti conoscono e che non sortiscono alcuna sorpresa, riesce comunque a dare linfa vitale ad ogni performance, supportato egregiamente dai musicisti che ormai lo accompagnano da tempo. Non c’è rischio di annoiarsi perché ogni volta lui sa tenere il pubblico sul filo del rasoio anche per oltre due ore come in questa occasione. Fra l’altro mettendo in piedi uno spettacolo con zero effetti speciali ma semplicemente facendo musica, e facendola dannatamente bene
Articolo del
09/04/2017 -
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