A meno di un anno di distanza riecco Francesco Baccini e Sergio Caputo, con il loro progetto “The Swing Brothers”, alla Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica. Li avevamo lasciati nella scorsa primavera alle prese con una serie di date insieme in giro per l’Italia, un singolo scritto a 4 mani “su Skype”, e tanti classici del loro repertorio rivisitati per accentuarne le linee ritmiche e melodiche più swing, con abbondanti spruzzate di jazz, e anche di bossa nova in alcuni casi. Li ritroviamo più o meno allo stesso punto, anche se, come ha detto dal palco lo stesso Caputo, hanno “un disco fichissimo” pronto per essere pubblicato, che però uscirà in data ancora da definire, per un impegno preso nel frattempo da Baccini (“un impegno tosto”, ha dichiarato sempre dal palco, questa volta il cantautore genovese).
Baccini e Caputo, due “eroi” della canzone italiana di qualche anno fa, diversi per temperamento, stile, e anche per biografia: il primo, laconico ma dalla battuta pronta, a tratti lunatico e con una ironica e al contempo spesso malinconica verve, ha avuto il suo momento di maggior successo negli anni ‘90 dopo il debutto Cartoons dell’89 che lo portò alla ribalta come nuova promettente uscita dalla scuola genovese, prima di eclissarsi tra dischi poco riusciti o troppo seriosi e qualche comparsata televisiva, nei due decenni successivi; per il secondo, invece, geniale e di una ironia quasi onirica, all’incrocio tra sogni di whisky e locali notturni, spicchi di luna, sabati italiani e astronavi che arrivano, gli anni ’80 sono stati gli anni d’oro con un sacco di successi diventati dei classici non solo del suo repertorio, ma proprio della canzone italiana.
Ad accomunarli sul palco dell’Auditorium, la voglia di riprovare a dire la loro, in un mercato discografico molto cambiato rispetto agli anni ‘80 e ’90, con un connubio apparentemente strano per il passato dei due, ma che trova una sintesi piacevolmente sorprendente nell’attitudine sul palco, nel buon feeling tra i due, e nella buona capacità di non prendersi troppo sul serio. Il resto lo fanno i brani scelti dai due repertori: in alcuni casi nati già sotto l’impronta dello swing, in altri casi con un’anima jazz che su disco era stata un po’ soffocata in fase di produzione. Sergio Caputo è il capobanda, unico chitarrista in scena, e dirige più o meno tutte le operazioni; Baccini sta dietro al pianoforte a coda, un po’ defilato (e su questo ironizza lui stesso: “il bassista sta a due fermate di metro”), anche se per molti brani preferisce ciondolare divertito su e giù per il palco, stare accanto al “fratello swing” cercandone l’intesa, o incitare il resto della band, il quartetto che da qualche tempo accompagna l’artista romano, almeno da quando è tornato a vivere nella capitale dopo tanti anni passati negli States: Paolo Vianello a piano e tastiere, la bella Fabiola Torresi al basso, Massimo Zagonari al sax e flauto, e Alessandro Marzi alla batteria. Tutti davvero eccellenti! Sullo sfondo, le proiezioni pensate dallo stesso Caputo con la collaborazione di Massimiliano Papaleo.
Immagini ed effetti, colori e disegni, con stralci di frasi tratte dalle canzoni in quel momento eseguite in scena. Un’impresa mica facile, quella di riproporsi nel panorama italico per i due cantautori, come in parte potrebbe dimostrare l’annullamento del concerto in programma qualche giorno fa a Milano. Anche venerdì all’auditorium romano restiamo abbastanza sorpresi dai tanti posti vuoti nelle prime file, quelli di solito riservati ad accrediti stampa o autorità. Segno da un lato che forse non è più cosi facile far parlare di sé dopo lunghi periodi di silenzio, e dall’altro che un concerto “copia” di quello dello scorso maggio, quindi senza la presentazione ufficiale di un disco o un nuovo progetto, probabilmente ha finito col neutralizzare molti possibili appassionati o addetti ai lavori. Il concerto, però, è molto divertente: i due protagonisti si presentano sul palco intorno alle 21.15, jeans, maglietta molto simile per entrambi (“non l’abbiamo fatto apposta” dice Caputo “questa è la mia maglietta preferita, non la metto mai per non rovinarla”) e cappello casual ma non troppo, per entrambi, con Baccini che aggiunge sneakers e giacca sportiva. Dopo una breve presentazione affidata al cantautore romano non a caso a centro scena, si parte con una scaletta non molto dissimile da quella dello scorso anno, e che prevede un brano dell’uno alternato a uno dell’altro. Attacca Baccini con Troppa birra nei bar che, nell’arrangiamento più swingato acquista decisamente più colore rispetto alla versione studio del 1999 in Nostra signora degli autogrill.
Caputo gli fa eco con C’est moi l’amour, brano scritto poco tempo fa per l’uscita del trentennale di Un sabato italiano. Contrariamente ai brani dello storico disco del 1983, che in questa uscita celebrativa risuonati in chiave jazz hanno acquistato rinnovato fascino e nuovo splendore, la nuova produzione di Sergio Caputo (ci mettiamo anche il disco di inediti, Pop Jazz and love, uscito nel 2015) non sembra all’altezza dei vecchi tempi, e pare perdersi in un innocuo tentativo di musica ben suonata, arrangiata a dovere, con qualche sussulto senza dubbio piacevole, ma senza quella pungente freschezza, a tratti magari ingenua ma sempre travolgente che ci ha fatto amare i titoli storici dell’artista romano. Solo un paio sono comunque i brani eseguiti e tratti da quest’ultimo disco praticamente tutto in inglese.
La scaletta si muove condita da diversi aneddoti (“fino a un anno e mezzo fa non c’eravamo mai incontrati”, rivelano i due sul palco), che divertono e distendono il pubblico, in un clima rilassato, senza stress promozionali: Caputo, che inevitabilmente fa la parte del leader, racconta ad esempio che Baccini gli ha confessato di aver dormito per un anno in macchina, nel suo tormentato periodo milanese: “potevi venire a cercarmi, anche se non mi conoscevi di persona”, “io son passato a casa tua, ho citofonato ma non c’eri!”. Non manca qualche piccola sbavatura, soprattutto in qualche finale un po’ ripreso per il bavero, o qualche amnesia non celata da parte di entrambi, che in un paio di occasioni ammettono candidamente di non sapere cosa ci sia in scaletta, o provano a ricordare davanti al leggio quali parti debba cantare uno e quali l’altro nelle canzoni in duetto.
I brani di Baccini suonano, come prevedibile, meno brillanti e più segnati dal tempo: dal passo veloce della comunque simpatica Fotomodelle, a Manager (con l’autore un po’ in difficoltà sulla linea vocale, così come, va detto, anche l’altro fratello swing in alcuni punti più ostici: gli anni passano per tutti, ma comunque grande mestiere nel gestire qualche piccolo cedimento), o ancora Filma, o La Maria, che seppure valorizzate dagli ottimi arrangiamenti della banda di Caputo, si mostrano un po’“ingessate” nella nuova veste jazzata. Su Le donne di Modena (in una interpretazione non banale, praticamente solo voce e piano), Genova Blues, con l’inevitabile ricordo del grande Faber (“ ho avuto la fortuna di conoscere alcuni miti della mia giovinezza: uno è qui sul palco, un altro è Fabrizio De Andrè”), o Sotto questo sole (con Caputo nei panni di Paolo Belli!), arrivano comunque gli applausi più sentiti per il cantautore genovese. Decisamente più brillanti i brani di Caputo: attacca Metamorfosi e il livello sembra salire decisamente, e sarà la stessa cosa per piccoli capolavori come Bimba se sapessi, Un sabato italiano, L’Astronave che arriva, Italiani Mambo, il gioiellino Spicchio di luna. Tutti rivisitati (e in qualche caso anche parecchio) rispetto agli originali in studio, i brani dell’artista romano, acquistano nuovo splendore, rispetto alla produzione un po’ di plastica, stucchevole, dei dischi pubblicati negli anni ’80, quasi a far rimpiangere che non siano stati da sempre suonati e registrati così.
L’unica piccola anticipazione del nuovo lavoro di prossima pubblicazione, è Non fidarti di me, brano pubblicato lo scorso anno, che si lascia ascoltare piacevolmente, e che promette bene, pur scivolando via forse fin troppo leggero. Divertente anche qui la presentazione: “l’abbiamo scritto in due, ma nessuno dei due se lo ricorda, facciamo finta sia una prova, e che la stiamo suonando per nostra zia!”. Tra una battuta e l’altra, e la salita sul palco dell’immancabile Andrea Rivera (che a quanto pare è di casa all’Auditorium!) prima del brano (di cui è coautore del testo) Ave Maria che Baccini, un po’ a sorpresa, ha pubblicato qualche settimana fa (che faccia parte del progetto “tosto” di cui si diceva all’inizio?), ironica preghiera alla Maria (De Filippi) televisiva, canzone onestamente tutt’altro che indimenticabile, si arriva alla chiusura del set principale, con Garibaldi Innamorato, spumeggiante e travolgente, tra assoli e sferzate di cha cha.
Prima dei saluti finali c’è tempo ancora per un paio di bis: immancabile Qua qua qua quando per l’artista genovese, con tutto il pubblico partecipe per uno dei suoi brani più celebri, mentre Caputo risponde e conclude con Mettimi giù morbida e suadente, eseguita con gran classe a congedare e ringraziare tutti i presenti. Gli Swing Brothers hanno replicato con successo un anno dopo e ora attendiamo che tutta questa voglia di swing e di jazz finisca presto in un disco nuovo di zecca
Articolo del
03/04/2017 -
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