Alejandro Escovedo è uno degli artisti cult del rock americano, apprezzato più da musicisti ed addetti ai lavori che non dal grande pubblico. Non ha mai realizzato una hit né il suo nome è conosciuto oltre i pur musicalmente floridi confini del Texas e degli Stati Uniti.
Escovedo è la più lampante dimostrazione dell'inesatta equazione tra fama e talento: lui di fama ne ha ben poca, ma, di talento, tantissimo. Non è il classico cantautore-rocker americano della sua generazione, tipicamente legato alla lezione di Dylan (vedi Tom Petty) o al rock made in U.S.A. a la Creedence Clearwater Revival(Bruce Springsteen, John Mellencamp). Pur essendo connesso alle radici della musica americana, in particolare al country texano, le sue scelte artistiche lo hanno avvicinato infatti all'irruenza del punk, al sound della British Invasion degli anni '60 e all’influenza di quel glam rock anni '70 che tanto deve a David Bowie e ai Moot the Hoople (difatti omaggiati con una splendida cover di I wish I was you mother).
Sarà che Chuck Berry ci ha appena lasciati, ma il concerto torinese di Alejandro Escovedo è sembrato un omaggio, molto ben riuscito, alla leggenda di Saint Louis. I riff graffianti, gli assoli di chitarra da duck walk, l'esplosività dell'interpretazione vocale hanno trasformato l'intimo Folk Club di Torino in un focolaio di rock'n'roll. Buona parte del merito è da riconoscere a Don Antonio, vibrante band di supporto che accompagna il cantautore americano nel tour europeo. Il leader è Antonio Gramentieri, già noto per il suo main project “Sacri Cuori”, chitarrista dotato della rara capacità di emozionare con il suo stile al contempo ruvido e pulito, memore della migliore tradizione chitarristica (quella che strimpella le corde con energia e gusto, si intende).
Il resto lo fa la qualità delle canzoni proposte, che spaziano da fulgori di garage rock (Castanets, Horizontal) a gemme di country e folk (Down in the Bowery, I wish I was you mother) o, se si vuole, di Americana, estratte dagli album più risalenti di Escovedo fino all'ultimo Burn something beautiful. Nonostante la varietà delle composizioni, il timbro musicale si mantiene stilisticamente ben riconoscibile durante l’intera performance. Escovedo comanda con lo sguardo i movimenti dei suoi musicisti, aiutato dall'aura sciamanica che emana, in grado di catturare l’attenzione del pubblico anche quando si dilunga, forse eccessivamente, in racconti di vita e di musica che fanno scemare per qualche attimo l’energia del pubblico.
La performance è divisa in due parti. Il primo set, introdotto dalla musica strumentale di Don Antonio che unisce le sonorità western a quelle mediterranee, è più marcatamente elettrico, mentre il secondo rievoca l'anima più acustica del repertorio di Escovedo, che in un paio di brani imbraccia la sua chitarra e scende tra il pubblico, quasi a testimoniare le sue origini da cantante folk, confuso col suo pubblico. La chiusura è affidata alla cover di un altro grande artista recentemente scomparso, Leonard Cohen. A thousand kisses deep, da Ten new songs, è l'inaspettato atto finale di un concerto da cui mi aspettavo tanto ma che mi ha saputo dare molto di più
Articolo del
04/04/2017 -
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