Serata imperdibile nella Capitale, al Monk suonano i Russian Circles e non ci sono ma, forse, né può darsi, presenziare è un must.
Nati dallo scioglimento dei Dakota/Dakota, i Russian Circles nascono con Mike Sullivan, il bassista Colin DeKuiper (la cui defezione è stata rimpiazzata da Brian Cook) e il batterista Dave Turncrantz. Ep e ben sei dischi alle spalle, se ne vanno in giro con gentaglia come Boris, Tool, Isis e stasera presentano l’ultima fatica: Guidance.
Sono le 22.00, per problemi alla cassa perdiamo venticinque minuti e quindi buona parte del gruppo spalla Cloakroom, riusciamo a beccare due pezzi in croce. Sono bravi, hanno un sound tondo e pieno, un buon mix tra stoner e shoegaze ma non basta per formulare un giudizio definitivo.
Durante il cambio palco si ha giusto il tempo per un paio di birre e qualche saluto, alle 23.10 il power trio è sul palco, pronto a indebolire la struttura del palco e sfondare i timpani. Cosa dire della band di Chicago che non sia stato già ampiamente detto? Poco e niente, ridotto in una sola parola: spaccano.
Sono le note di Asa, al buio, a introdurre la band che ritarda l’entrata fino all’arrivo di Vorel. La prima vera traccia del live squarcia il buio strappando il primo fragoroso applauso. Una partenza bruciante, non c’è che dire.
Come in un concept, tutti i brani scorrono su un nastro trasportatore fatto di loop, feedback e drone che non mollano mai la presa mantenendo altissima la tensione. Forti di una seconda chitarra, nelle sapienti dita di Cook, costruiscono un muro di suono imponente. Senza un ordine preciso scattano Deficit e 309, il moog taurus ricorda i concerti dei Motorpsycho, 1998 al Bloom, in cui Snah dava fondo a tutto il suo estro per ispessire il suono, andando a supplire alla mancanza di un quarto elemento sul palco. Turncrantz, alle pelli, è quel che si dice un rullo inarrestabile, pesta, mena e percuote come non ci fosse un domani (a Livorno) e un dopodomani (a Milano). Funambolo di accenti e ghost note, accelera e rallenta andandosi a infilare come una scheggia fra i riff.
Hanno la giusta spinta, la capacità di creare atmosfere in crescendo che costringono il pubblico ad agognare le esplosioni che sempre susseguono alle sezioni centrali. Sono forti della giusta distorsione e in più stasera si sente anche bene, il che a Roma non è poco. Sciorinano una serie di classici prendendo dal nuovo incandescente materiale per invertire la marcia verso il passato. Il pubblico è in estasi, lo sì evince dai sorrisi ebeti e compiaciuti e dall’headbang largamente diffuso. Sono maestri assoluti nel creare il climax anticipando la tempesta attraverso una quiete sinistra, sibillina, poi aprono pedali e volumi a manetta e il decollo in verticale è assicurato. Passaggi più eterei, costruiti su arpeggi melodici, si alternano a sezioni violente che innescano il detonatore capace di far saltare (nel)la sala. Acidi quanto basta, psichedelici per necessità e irruenti nelle trame, continuano sulle note di Mota fino a Mlàdek.
Un solo encore, Youngblood, sigillo necessario per un concerto perfetto.
SETLIST:
Asa Vorel Deficit 309 Afrika Harper Lewis 1777 Mota Mlàdek Encore: Youngblood
Articolo del
03/03/2017 -
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