Un lunedì davvero caldo a Roma, la temperatura subirà un serio innalzamento nella zona in cui si erge il Quirinetta, teatro in cui gli Uncle Acid And The Deadbeats si esibiranno per la seconda discesa nella Penisola.
A pochi metri dal locale notiamo uno sparuto gruppetto di figure in nero in attesa che la band di The Night Creeper salga sul palco per ampliare la percezione sensoriale dei presenti con un'equilibrata formula psichedelica capace di scardinare anche le resistenze più profonde. All’interno il caldo soffocante costringe in un attimo a occuparsi della questione alcol, disbrigata velocemente con un gin-tonic corroborante. Sul palco gli Scorpion Child stanno facendo il loro dovere su una formula trita e ritrita che fonde hard rock e oscurità sabbathiane suonata con la massica cura e dovizia ma senza quella spinta necessaria per urlare a miracolo. Se l’obiettivo è quello di raggiungere una certa credibilità in un genere esplorato in tutte le sue forme, i 5 falliscono nell’impresa. Buoni e precisi, ci mettono tutto l’impegno del mondo ma qualcosa continua a mancare, un qualcosa di significativo e importante.
Alle 23.15 dopo un cambio palco abbastanza lungo le luci vanno giù e i 4 musicisti sono pronti sul palco. Due chitarre a sinistra, basso opposto e batteria al centro. L’incipit di Mt. Abraxas da solo basta per sovvertire le regole, la scena muta repentinamente e ci ritrova immersi in una nube psicotropa di estrazione Seventies capace di spazzare via la venue. Il pubblico è bellissimo, tutto rigorosamente in black. Le magliette variano, si fa per dire, dai Black Sabbath ai Tool (quest’ultimi, ovviamente prima del concerto, sono riuniti in gruppetti impegnatissimi a scambiarsi informazioni fittizie sull’ormai chimerica nuova uscita per la band di Los Angeles). Si sta abbastanza larghi ma di certo non si può dire che il locale sia vuoto. Si balla e poga su ogni riff debitore di Toni Iommi. L’effetto non è mai fine a se stesso né studiato per scimmiottare il “Signore del metal”. Le due voci, avvinghiate fra loro, creano una timbrica che manderebbe in giuggiole Ozzy. Con tutto il rispetto per la band precedente, il divario è abissale.
Kevin Starrs, con la sua chitarra gialla, è al centro del palco proiettato in questo hard-psych stoner la cui componente solistica prende a piene mani dalla pentatonica sciorinando una serie di assoli magmatici che ipnotizzano i presenti. Nei brani più lenti (Slow Death) gli Uncle Acid costringono gli astanti in una sorta di ondeggiamento sciamanico. Non mollano la presa neanche per un istante, nessun segno di stanchezza, la noia non affiora mai e i nostri considerando lo spettacolo di Milano sembrano ancora più affiatati e rodati dai mesi passati on the road.
Volendo essere proprio pignoli quello che è mancato agli Uncle Acid è una sorta di spinta emozionale interna, quella furia da palco che s’appropria del carattere trasformando i musicisti in invasati di primordine. la sensazione è che la band fosse conscia dei propri mezzi, capace di gestire rabbia e momenti più rilassati risultando pericolosamente vicina a una sorta di routine da palcoscenico che mai scade nel compitino. L’arrivo di Waiting For The Blood al secondo posto della setilist che vi piaccia o no, con quel suo irresistibile riff melodico imperniato sugli accordi di Tony infiamma tutti, ma proprio, tutti azzeccando una strategia in crescendo che non si fermerà neanche durante gli encore con una versione ultra psichedelica di Slow Death. Non mancano Mind Crawler e la nuova Pusher Man, killer track che unita a Melody Lane e qualche rara perla del passato concludono degnamente la loro esibizione.
4 stelle su 5, 3.5 per lo show nella sua interezza e 0.5 perché nonostante tutto ci sentiamo ancora orfani e un po’ nostalgici di un periodo algido che non ritornerà in nessun caso. Ne sentiremo parlare ancora, bene, statene certi.
Articolo del
26/10/2016 -
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