Sabato 16 luglio, ore 20,21: il sole su Roma comprende di aver fatto il proprio dovere anche oggi, e decide di andare a riposarsi dietro l’orizzonte di Trastevere. Soprattutto ha capito che da quel momento in poi non c’è più bisogno di lui per illuminare la grande arena del Circo Massimo, perché sulle note di C’era una volta il West di Ennio Morricone sul palcoscenico messo li per lui appare un altro sole ad illuminare la serata. L’anagrafe e le biografie ci dicono che ha 66 anni, ma nessuno ci crede. Con lui entra la band, la E-Street Band, 40 anni di storia del rock, in cui hanno accompagnato il loro gladiatore in giro per il mondo. Come un messia, come un vate: a diffondere musica, a distribuire sogni, a regalare emozioni indimenticabili, a raccontare le storie degli ultimi, quelli che non avrebbero voce, che sarebbero invisibili ed invece si ritrovano ad essere protagonisti raccontati con l’energia e la passionalità di un capopopolo che ne comprende il disagio e le illusioni tradite. Ai loro concerti sai sempre che non sarai deluso, ma non sai mai fino a dove loro, Bruce e la sua band, sapranno spingersi questa volta. Anche noi, che lo seguiamo da sempre, quasi inconsciamente pensiamo che il tempo passa per tutti, e dunque non potrà continuare a lungo a tenere quei ritmi disumani nelle sue ormai mitiche performance. Ed ogni volta anche noi dobbiamo ricrederci, ed ogni volta di più fatichiamo a stare dietro i suoi ritmi e le sue quasi 4 ore senza sosta di un concerto memorabile.
Il tramonto mozzafiato su quella location straordinaria, resa ancora più bella da quegli oltre sessantamila corpi che attendono trepidanti la scossa contagiosa del rock, colpisce anche lui: “Bello essere nella città più bella del mondo. Daje, Roma“. E allora, in una sorta di abbraccio metaforico con la sua città adottiva parte con la dolce, struggente, bellissima New York City Serenade, eseguita con il supporto dell’orchestra Roma Sinfonietta. Quei sessantamila corpi ascoltano, come rasserenati da quella melodia che va semplicemente goduta senza troppo scaldarsi. Ma sono già tutti pronti: e allora via con Badlands, e la scossa contagiosa colpisce tutti ed infiamma l’arena. Al domatore sono bastate poche note per domare la sua massa: dal suo immenso repertorio sceglie molti brani di 'The River', l’album che da il titolo al tour. Da The Ties That Bind a Sherry Darling, da Indipendence Day a Hungry Heart, da Ramroad a Point Blank, dalla meravigliosa Drive All Night fino ovviamente al cavallo di battaglia storico, The River.
Ma la scaletta e la scelta delle sue canzoni nei concerti sono quasi un dettaglio: il gladiatore non ha bisogno di seguire una strada prestabilita, dal suo repertorio può pescare ovunque, e ovunque la pesca riesce a saziare qualsiasi palato. Cosi, dall’album 'Born To Run' estrae Jungleland, che una volta di più esalta le straordinarie qualità del sassofonista Jake Clemons, nipote del mitico Clarence,al quale il Boss, in segno di grande rispetto, dedica diversi minuti di filmati sparati sui maxischermi a ricordare quella storica amicizia che solo la morte ha potuto interrompere.
Come sempre l’icona del rock non può essere ingabbiato in una etichetta musicale che sarebbe troppo riduttiva: e allora ecco che ci ricorda che tutto arriva da li, dal blues, che puntualmente omaggia scegliendo stavolta Summertime Blues di Eddie Cochran” e Boom Boom di John Lee Hooker. Sono trascorse oltre 3 ore, e quando cominci a pensare che forse sei al giro di boa lui è li, sul palco: ti guarda e ti chiede “Tutto bene?” E di nuovo comprendi che lui ha una marcia in più: Born To Run e a seguire Born In The USA toglierebbero il fiato a chiunque. Ma non a lui, che continua imperterrito a sfornare cavalli di battaglia che vincerebbero qualsiasi guerra: Bobby Jean, The Rising, l’intramontabile Dancing In The Dark, ballata anche stavolta con una donna che gli aveva esposto il cartello “Prima che sia troppo tardi”. Per lui non è mai troppo tardi: continua a suonare in un crescendo di divertimento, balla, suda, duetta alla chitarra con Little Steven e con una giovanissima ragazza che gli aveva chiesto di poter suonare con lui.
Se, probabilmente, non ci fossero limiti imposti dal Comune di Roma di terminare intorno alla mezzanotte, lui sarebbe ancora li a suonare. Ma adesso è proprio ora di chiudere: presenta la band e la accompagna dietro il palco. Finito, tutti a casa soddisfatti. Macché, il gladiatore riesce, stavolta da solo, armato solo di chitarra classica e fisarmonica. Thunder Road, e pelle d’oca dei sessantamila. “Grazie, vi amo!” Ma non quanto noi amiamo te. Stavolta è finita davvero: 3 ore e 50 minuti, normale per lui. L’arena si svuota rapidamente: ottima l’organizzazione, ottime le riprese per i megaschermi, ottima l’acustica; ottimo pubblico, intergenerazionale come sempre. Ai due lati dell’arena rimangono il Palatino e l’Aventino, sbigottiti anch’essi dall’aver rivissuto almeno per una sera la grande bellezza della quale sono testimoni da millenni. Anche noi abbandoniamo l’arena, dove ancora una volta il domatore ci ha ipnotizzati: dove, ancora una volta, usciamo con un questo pensiero: chi c’era, ora sa cosa è una leggenda. Chi non c’era, ora avrà la certezza di avere almeno un rimpianto nella propria vita!
Articolo del
17/07/2016 -
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