La notizia era di quelle bomba, che non poteva lasciare indifferenti fan e appassionati: Bruce Springsteen suona 'The River', il suo doppio disco del 1980, dal vivo, per intero, in un tour americano annunciato subito dopo la pubblicazione del cofanetto 'The Ties That Bind', dedicato proprio ad una riedizione dello storico album, con tanto di outtakes, dvd live, documentario ecc.
In attesa che il tour tocchi l’Europa la prossima estate, lo scorso febbraio siamo andati negli States per vedere da vicino come suonano quelle canzoni eseguite dal vivo una dopo l’altra, nel 2016, trentacinque anni dopo, e dopo tanta acqua passata proprio sopra quel fiume. Abbiamo scelto tre città a poche ore di automobile l’una dall’altra: prima tappa ad Albany nello stato di New York, quindi Hartford nel Connecticut e infine Philadelphia, da sempre roccaforte della passione springsteeniana.
Ad Albany, in possesso del biglietto GA (General Access quindi accesso al parterre) siamo stati fortunati nella lottery che in USA decide con un sorteggio chi entrerà per primo nel palazzetto e quindi si troverà nelle prime file, e ci ritroviamo praticamente in transenna a bordo palco. Intorno alle 20 la E Street Band fa il suo ingresso in scena, l’ultimo a salire è proprio Bruce che nel suo ormai consueto look da qualche anno a questa parte, con jeans scuri, camicia e gilet (e un vistoso crocifisso al collo!), imbracciando la sua Fender Telecaster, dà il via al concerto con il suo inconfondibile “One two three four” sul drumming di Max Weinberg, aprendo con il rock di Meet Me In The City. Spariti coristi, fiati e percussioni che avevano accompagnato gli ultimi tour, stavolta Bruce torna al suono asciutto, compatto e rock che proprio nel tour dell’80-81 trovò probabilmente la sua massima espressione e maturità. Ovviamente non può essere la stessa cosa di quel tempo. Innanzitutto a differenza di quel tour mancano il sax di Clarence Clemons e l’organo e le tastiere di Danny Federici, che tra il 2008 e il 2011 ci hanno salutato, passando “nell’altra stanza”, e Little Steven non è più solo alla seconda chitarra come succedeva 35 anni fa, visto che ormai da quasi 22 anni Nils Lofgren è parte effettiva della famiglia E Street Band. Meet Me In The City che sta aprendo tutti i concerti del tour americano, è uno dei brani che restò fuori dal doppio disco 'The River', eppure ne ricalca lo spirito, il suono, la consapevolezza di poter suonare forte, con cuore, muscoli e sudore, di poter graffiare ma anche di dover gestire nei particolari una macchina di suono dal vasto e ampio potenziale emozionale. Recuperata oggi, e suonata con il piglio ma anche l‘inevitabile peso degli anni che passano, sembra tracciare un ponte naturale tra quello che era quel gruppo, quello che da lì a poco sarebbe diventato a livello di successo mondiale nel 1984 di 'Born In The USA', e quello che è adesso, dopo 35 anni, di successi, di cambiamenti, di giri intorno al mondo, di altre decine di canzoni scritte e suonate.
Nella notte di 'The River', durante il primo pezzo in scaletta e davanti ad un pubblico acceso e partecipe nelle serate di Albany e Hartford, e che sarebbe diventato bollente nella notte di Philadelphia, Bruce alterna sorrisi e occhi chiusi, sferza la chitarra con la sua solita convinzione, mentre le luci accese del palazzetto restano accese per tutta la durata del brano. Siamo arrivati sulla sponda del Fiume e si comincia. Bruce introduce l’esecuzione full album del suo doppio storico disco fugando subito l’effetto nostalgia. 'The River' era il disco della sua maturità come uomo, che per la prima volta affrontava temi da adulto, seppure con la consapevolezza di un ragazzo/uomo di appena 30 anni che iniziava a fare solo i primi conti con ciò che significa diventare un uomo: l’amore maturo, il rapporto con il proprio padre, la voglia di fuga ma anche quella di raccogliere i frutti di un lavoro, di un rapporto, la voglia ancora di divertirsi perché non è peccato esserlo e sentirsi vivi, il saper affrontare le delusioni e le sconfitte con spalle larghe e voglia di riscatto. E' proprio questa intro a togliere qualsiasi ombra di dubbio sul fatto che possa essere una minestra riscaldata che patisca l’effetto nostalgia. Bruce sa che i tempi sono cambiati, ma vuole tornare su quei luoghi, tornarci con i compagni della sua band, con il pubblico che ha deciso di seguirlo fin qui, e che in alcuni casi, potenza della sua musica, quando uscì 'The River' non era ancora nato.
Si parte e The Ties That Bind apre le danze: i legami che uniscono, non puoi evitarli, non puoi ignorarli. E’ il brano coi titoli di testa, tanto per intenderci, ma c’è già tutta la rabbia e l’energia possibile. Possibile? Con questi ragazzotti di oltre 65 anni tutto questo è ancora possibile. Per chi vi scrive 'The River' è uno dei dischi della vita, e sentirlo suonato per intero dal vivo, è davvero una botta assurda. Scorrono una dopo l’altra tutte le sfumature che segnavano la maturità di quel sound: il rock ruvido, potente di Jackson Cage, il confronto con i propri padri in Independence Day, o con le relazioni mature destinate a dissolversi, come in Fade Away, la mai sopita voglia di fuga di Hungry Heart, il lato scuro della sconfitta, della disperazione e dei rimorsi, in The River o Point Blank, i momenti di energica vitalità in Cadillac Ranch, o in Out In The Street, il confrontarsi col tempo che passa e con il senso della fine in Stolen Car o in Wreck On The Highway, l’epica del viaggio e della speranza di The Price You Pay, la notte e l’amore senza ragione, appassionato e notturno, come in Drive All Night.
Sul palco c’è una band che suona con una maturità nuova ovviamente rispetto all’innocenza appena perduta di quei primi anni ’80. Eppure anche nel suono c’è una presa di coscienza che non può prescindere da “quello che eravamo”. Non è un caso che Little Steven torni a fare la parte del protagonista accanto a Bruce, suonando tanto e facendo tantissimo ai cori, come appunto faceva del The River Tour ’80-81 e contrariamente al poco a cui ci aveva abituati nei concerti degli ultimi anni. E’ significativo che Bruce recuperi per due brani, I Wanna Marry You e Point Blank, proprio le introduzioni (anche cantata per il primo dei due brani, e strumentale nel secondo) che era solito fare nel concerti dell’epoca. Omaggio emozionante che segna il percorso tra ieri e oggi, e che non passa inosservato anche per noi che quei concerti li abbiamo sentiti solo nei bootleg. Dopo circa due ore Wreck On The Highway chiude l’esecuzione del full album, e si resta senza parole, un po’ storditi. Da un lato la consapevolezza del tempo che passa (sottolineato anche dallo stesso Bruce nella coda dell’ultimo brano) dall’altro di un disco ancora robusto, potente, affatto scalfito dagli anni. E’ anche inevitabile che il tiro possa non essere sempre quello di un tempo, e che si viaggi con qualche giro in meno. Non è un reato, anzi: la lezione è che bisogna ammettere che il tempo passa, e confrontarsi con ciò che siamo diventati, senza tentare di essere ciò che eravamo.
Nelle tre date che abbiamo visto, la sensazione dopo i 20 brani di 'The River' è stata la stessa. Con l’esecuzione del full album, “start to finish”, si chiude la parte forte, il nocciolo dello show. Bruce, come era logico aspettarsi, vista la sua naturale e indomita predisposizione a suonare all’infinito, inizia a quel punto praticamente un secondo spettacolo, che va avanti per un’altra ora abbondante. Eppure se dopo Wreck On The Highway avesse salutato tutti e abbandonato il palazzetto, avrebbe già fatto un concerto straordinario. Lui, ovviamente, non ne vuole sapere di lasciare il palco e ogni sera sceglie brani diversi dal suo repertorio. Ad Albany dopo la solita infuocata Badlands, è arrivata una emozionante Backstreets (tanto per unire gli altri due dischi capolavoro di Springsteen, 'Darkness' e 'Born To Run'), mentre Be True suonata subito dopo, è una di quelle outtakes che restarono fuori da 'The River'. Il concerto è andato avanti poi con brani che il pubblico americano dimostra di gradire non poco, da Because The Night a The Rising, per proseguire tutte le sere verso il finale con l’accoppiata Thunder Road/Born To Run a segnare forse i pezzi più importanti della discografia di Bruce con la E Street Band, e ancora una Dancing In The Dark che certo non fa più scintille come un tempo, ma serve per far ballare ogni angolo del palazzetto, e lanciare l’irresistibile Rosalita, che sistemata a fine scaletta non potrebbe avviare in modo migliore la chiusura del concerto, che al momento è affidata ad una saltellante cover di Shout (che già nel tour del 2013 segnava la fine dei concerti del Wrecking Ball Tour).
Dicevamo del pubblico americano. Preso atto del grande rispetto delle regole e del grande ordine organizzativo prima del concerto, va detto che sotto il palco le scene che siamo abituati a vedere in Europa sono solo un lontano incubo: niente spinte, pugni, gomitate, ressa senza esclusione di colpi quando Bruce si muove a bordo palco e si allunga verso le prime file. Durante Hungry Heart ogni sera il Boss si concede anche un crowd surfing che in Italia, ad esempio, sarebbe improponibile. Altra cosa importante anche se quasi ovvia, è la partecipazione del pubblico americano di fronte a brani come The Rising che raccontano una loro ferita nazionale recentissima. L’emozione vibrante durante tutto il brano, la si può percepire e avvertire solo in un palazzetto americano, e nei nostri stadi resterò sempre una canzone che parla di rinascita sì, ma di cui non si può avvertire pienamente la perdita e il vuoto che le ha dato origine.
Il concerto di Hartford ha visto l’esecuzione tra le altre di un’altra bellissima outtake di 'The River', Loose Ends, e la nostra postazione questa volta sugli spalti ci ha consentito di vedere la band e Bruce da un’altra prospettiva, più distante ma anche più rilassata, per godere di finiture e fraseggi che testimoniano un concerto finalmente pensato e ragionato anche nei particolari, dopo gli ultimi tour nei quali, al di là dell’imprevedibilità della scaletta, ogni tanto le esecuzioni risultavano meno rifinite, anche per la presenza di tantissimi musicisti sul palco che rischiavano di pestarsi i piedi o coprirsi a vicenda.
A Philadelphia abbiamo assistito probabilmente al più intenso dei tre show, soprattutto per merito della grande partecipazione e dell’ entusiasmo straripante del pubblico. Philly, da sempre roccaforte springsteeniana, appariva pochi minuti prima dell’inizio già un catino bollente: biglietti esauriti da tempo, scalpers (leggi: bagarini) appostati al box office per piazzare a cifre esorbitanti gli ultimi tagliandi, sugli spalti tantissima gente dal New Jersey, alcuni ragazzi negli ani ’80, oggi al concerto con famiglia al seguito anche per rivivere un disco che ha segnato la vita di molti. Bruce ha avvertito subito questo pathos e dopo la consueta Meet Me In The City, l’esecuzione di 'The River' “full album” ha toccato altissimi vertici emozionali. Il pubblico ha accompagnato la band senza sosta e senza timore per 3 tostissime ore, pronto a riattraversare quel fiume ancora una volta, come in tante altre notti leggendarie vissute a Philadelphia, insieme a Bruce Springsteen & The E Street Band.
Subito dopo i 20 brani del disco, la seconda parte è iniziata con una Atlantic City che ha fatto letteralmente tremare le pareti del palazzetto. Un coro si è unito alla voce di Bruce dalla prima strofa, ambientata proprio a Philly, e la tensione emotiva è stata davvero assurda per quei 4 minuti. Accanto a noi un padre che cantava “Well they, blew up the chicken man in Philly last night” e che pochi minuti prima ci aveva detto che questo sarebbe stato il primo concerto con suo figlio seduto lì accanto a lui. La scaletta è andata avanti con altri momenti maiuscoli, come Prove It All Night, e con una Human Touch in duetto con la rossa Patty Scialfa ai cori, che era stata invece assente ad Albany e ad Hartford.
Quando poi a luci spente, violino e piano hanno aperto Jungleland, beh a quel punto, siamo entrati davvero nella leggenda springsteeniana, quella della grande città, dei romances suonati con sax, piano, e chitarre. Uno dei monumenti delle canzoni di Bruce. Anche in questo caso il concerto sarebbe potuto finire lì, e probabilmente non ci saremmo mai ripresi. Il gran finale invece è ancora quello con Thunder Road, Born To Run e via via fino alla danza ancora una volta sfrenata di Shout.
Se c’è una cosa che possiamo dire dopo questi 3 concerti americani di Bruce, e in attesa del suo arrivo in Europa e in Italia della prossima estate, è che Bruce, a 66 anni è ancora il più grande performer del mondo. Che questa volta, forse a differenza delle ultime, ha voglia soprattutto di suonare e cantare, di lasciare suonare la sua band e la sua musica, nel suo disco probabilmente più maturo, e lasciar perdere, almeno in parte, frizzi e lazzi che avevano accompagnato gli ultimi “giri” con la E Street Band “allargata”.
La sua musica è ancora viva, a distanza di anni suona forte, sincera, 'The River' non sembra aver patito, come talvolta accade anche ai grandi dischi, il passare del tempo sui propri solchi. Nel The River Tour 2016 non c’è spazio e tempo per la nostalgia, non è per quello che ci si ritrova lì, e tantomeno è per quello che Springsteen ha voluto mettere sul palco questa formazione e suonare tutte quelle canzoni. E’ un voler tracciare un ponte, un recuperare quel “come eravamo” ma alla luce di come siamo diventati. Al netto delle risposte che ognuno potrà trovare o meno, c’è di sicuro spazio per grande musica senza tempo, e per una band, che nonostante qualche perdita dolorosa e insostituibile, è ancora lì, in giro, con ancora tanta voglia di suonare, nonostante la fama e il successo, per oltre tre ore, tutte le sere.
E per chi ha la fortuna di esserci, beh, in quelle tre ore non c’è altro posto al mondo dove si possa voler essere.
(Foto di Antonello Cacciotto)
Articolo del
19/04/2016 -
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