Per ricordare il da poco scomparso tastierista e fondatore dei Nice e di Emerson Lake & Palmer vi riproponiamo la recensione di uno dei suoi ultimi concerti italiani.
Serata nostalgica ma ricca di spunti all’“altro” Auditorium (quello a due passi da Città del Vaticano), per l’attesa riapparizione nella Capitale della tastiera più veloce del West, la mitica “E” degli Emerson Lake & Palmer. Bella la location, in cui peraltro non eravamo mai stati, e che abbiamo apprezzato anche dal punto di vista architettonico. Meno attraente il pubblico, composto in larga maggioranza da panzuti e/o con fondi di bottiglia al posto degli occhiali, “born in the 50’s” come cantava Sting e talvolta anche nei “40’s”. Come dire: la Roma fighetta e modaiola non si trovava certo all’Auditorium di Via della Conciliazione, giovedì sera. Era decisamente altrove.
Anni Settanta a tutto spiano, quindi, grazie al prog-sound dell’epoca e al look assai demodè del 61enne Emerson, in gilè, camicia comprata (chissà, forse) a Nassau e jeans iperusurati, e – soprattutto – del chitarrista trenta/quarantenne Dave Kilminster, uno che sembra essere stato sparato nel nostro secolo dalla copertina di un album dei Free. Più al passo con i tempi, invece, la sezione ritmica, composta per l’occasione dai giovanotti Phil Williams (bass) e Pete Riley (drums) (tutta gente tecnicamente mostruosa, manco a dirlo…).
Intorno alle 21.30 la Keith Emerson Band versione 2005 monta sul palco e ci dà il bentornato allo “show che non finisce mai”, eseguendo, come di prammatica, Karn Evil First Impression Pt.1 da “Brain Salad Surgery” con Kilminster che dimostra fin da subito di poter, vocalmente, degnamente sostituire Greg Lake. Rispetto allo spettacolo della Carl Palmer Band – visto un paio di volte da queste parti negli ultimi anni – la scaletta di Emerson risulta più svincolata dai pezzi forti di EL&P (grazie anche alla militanza del tastierista in un altro “gruppetto” chiamato The Nice e alla sua vasta conoscenza del repertorio classico e jazz nonché blues) e meno scontata. Ripesca, per fare un esempio, Living Sin da “Trilogy” e Bitches Crystal da “Tarkus”; ove soprattutto quest’ultimo è uno dei migliori benché meno celebrati brani del periodo “classico” degli EL&P.
(Ri)vedere Emerson circondato da un mastodontico Moog e da due diversi set di tastiere - una delle quali in realtà un computer il più delle volte messo in modalità organo Hammond – è uno spettacolo nello spettacolo; anche perché il principe delle tastiere, dopo un’operazione subita alla mano destra nel ’93 al fine di recuperarne la sensibilità nervosa, si è rimesso alla grande, e si muove tra i tasti con una speditezza (quasi) pari a quella con cui stupì il mondo nei primi anni ’70. Arriva il primo pezzo dei Nice, la Karelia Suite, brano classico riarrangiato con jam finale; e il pubblico si infiamma con Hoedown (da “Trilogy” di EL&P), travolgente con Emerson che assale la tastiera come ai vecchi tempi come per aver ragione di quel riff più volte reiterato. Fans, poi, definitivamente in ginocchio con la melodia senza tempo di Lucky Man (la migliore canzone pop che EL&P abbiano mai scritto?), specie quando sul finale Emerson “lancia” il moog in una sorta di omaggio postumo al Dott. Robert Moog, l’inventore di cotanto peculiare strumento recentemente scomparso.
In tutto questo portento in stile Seventies, il capo della banda appare affabile e rilassato, più o meno come il Carl Palmer visto a Roma. Gigioneggia con il mellotron simbolo fallico (vecchio giochetto che fece già all’Isola di Wight), suona il synth alla rovescia e motteggia con Kilminster e con il pubblico. Non accoltella più l’Hammond come faceva trenta e più anni fa, ma continua ad aggredire la tastiera con bella foga nel medley America/Rondo – due brani dei Nice ripresi anche dagli EL&P periodo “Pictures At An Exhibition” - per la delizia del pubblico. A un certo punto – a metà del concerto – sulla destra del palco compare un piano a coda rosso fiammante: è il momento delle Piano Improvisations per cui i set di Emerson sono rinomati. La band si fa da parte, la scena è tutta per lui. Esegue – con il supporto di Kilminster all’acustica - un movimento elegiaco dedicato alle vittime di New Orleans e ad un suo amico morto da poco; ma il pezzo realmente forte è il terzo, che suona integralmente da solo. Un brano magistrale, tra il classico e il jazz, eseguito con una speditezza e una fluidità che ci ha ricordato il motivo per cui in passato Emerson lo abbiamo considerato un grande. Perché Emerson è una sorta di hardcore-punk del piano a coda, nevrotico, trasgressivo e mai completamente soddisfatto del motivo che sta suonando, sempre alla ricerca di un’altra via, di un “qualcosa di più”: questo è Keith Emerson, e questo è il motivo per cui chi include gli EL&P impunemente nel calderone dei barbosi dinosauri del progressive non ha afferrato che i sei album “classici” incisi dal trio tra il ’70 e il ’77 racchiudevano un’idea di musica “globale” che ahimè pochi sono riusciti a cogliere. E’ pur vero che quell’idea, a volte, non è stata neanche ben realizzata come da intenzioni. Con la suite di “Tarkus” – che è il capolavoro di EL&P – è però indubbio che ci siano riusciti. E stasera la Keith Emerson Band la riesegue, integralmente – a differenza di Palmer che ne riprende solo alcuni movimenti - e assai bene, anche se alcune sonorità troppo “moderne” divergono, almeno nella nostra testa, da quelle originali.
Viene eseguito un brano nuovo, Static scritto da Kilminster che poteva essere evitato, e arrivano anche Country Pie (cover dei Nice del Bob Dylan di “Nashville Skyline”) e Touch & Go - tratto dal sottovalutato “Emerson Lake & Powell” (dell’86), dedicata al batterista Cozy Powell morto nel 1998. Ai bis il pubblico si è alzato dalle sedie ed è ormai assiepato sotto il palco. Emerson lo ripaga con una inedita (e brillante!) versione alla EL&P di Black Dog dei Led Zeppelin, con Kilminster scatenato che può finalmente dare libero sfogo al metallaro che – ne siamo certi – è dentro di lui. Chiusura quasi d’obbligo, poi, con Fanfare For The Common Man in una ottima e ben ritmata (quasi ballabile) versione.
Ma non è finita, perché richiamato dalla folla Emerson riemerge e dà il “la” a Honky Tonk Train Blues, il suo pezzo in Italia più famoso sin da quando andò al numero 1 anche perché era la sigla del programma tv “Odeon”. Torna in scena anche la band, e il tutto si trasforma in una confusa jam in stile festa paesana. I matusa nel pubblico si divertono come pazzi, noi un po’ meno – allora come omaggio all’Italia poteva suonare Mater Tenebrarum dal film di Dario Argento “Inferno” – ma va bene così.
L’“esibizionista” (dal titolo della sua recente autobiografia) Keith Emerson ci ha regalato ben due ore e mezza di show e una scarica di potenti flashback anni Settanta. E quelle sue due mani tormentate sono tornate a funzionare bene come un tempo. Nostalgia: sì, tanta, ma anche un’abbondanza di talento tasteristico che – un’eventuale prossima volta – sarebbe affascinante vedere all’opera nell’ambito di un concerto solo di “piano improvisations".
In loving memory of Keith Emerson (2 November 1944 – 10 March 2016)
Articolo del
14/03/2016 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|