Dimenticate il vanaglorioso proclama lanciato nelle scorse settimane da voi-sapete-chi negli stadi di questa nostra Penisola: la festa, quella vera, ha avuto luogo qui ad Eutropia – e, presumiamo, il giorno successivo al festival Locus di Locorotondo – grazie al funk incalzante e appassionato offertoci da George Clinton e dalla sua P-Funk Band: sonorità che di rado si sentono da queste parti, in grado di far scuotere le anche perfino a uno zombie. L’oggi 74enne Clinton, per chi non lo sapesse, è Storia. Del doo-wop e dell’r’n’b con il suo primo gruppo, The Parliaments. Ma poi soprattutto, dalla fine degli anni Sessanta in poi, con i Parliament e i Funkadelic, due formazioni rivoluzionarie che scrissero le regole della moderna musica Funk, in una variante che – come Clinton stesso non perde occasione di ripetere – prende il nome di P-Funk, e la cui influenza ha travalicato, negli anni, gli steccati di genere, fino a trovare ammiratori ed emuli sia nel mondo dell’hip-hop (Dr. Dre, Digital Underground, Snoop Dogg) che in quello del rock bianco (Red Hot Chili Peppers, Primus e Primal Scream, per citare i nomi più noti).
Si temeva che Clinton potesse portare in Italia una versione “ridotta” del suo formidabile spettacolo. E invece, pochi minuti dopo le 22, i P-Funk Allstars si presentano in scena in formazione completa, in tutto una ventina (!) di elementi, Clinton compreso, vestito come un rispettabile businessman degli anni ruggenti. La Mothership non ci mette molto a decollare, in un batter d’occhio è “one nation under a groove” come recita il ritornello del secondo brano in scaletta. Clinton tiene banco al centro del palco come fosse un direttore d’orchestra lasciando spazio, di volta in volta, ai solisti della band e a due (o tre? o quattro?) di giovani rapper/maestri di cerimonie. Vampate di synth alla Bernie Worrell annunciano l’arrivo di Give Up The Funk (Tear The Roof Off The Sucker), brano-chiave dei Parliament che fa saltare su e giù la platea. La luce del riflettore si sofferma quindi su una delle tre coriste, quella mascherata da “gatta” (con tanto di coda) per una versione a luci rosse di I Call My Baby Pussycat, il brano che apriva ‘Osmium’, Lp d’esordio dei Parliament datato 1970. L’entusiasmo va alle stelle con Flashlight, il classico del ’78 più volte, peraltro, ripreso e/o campionato dalla generazione hip-hop. Ma il clou dell’intera serata è – probabilmente - il momento dell’esecuzione di Maggot Brain (posto in apertura dell’omonimo Lp dei Funkadelic del ’71) in cui l’attuale chitarrista dei P-Funk Allstars, DeWayne Blackbyrd McKnight, si lancia in un assolo di chitarra hendrixiano che non fa rimpiangere neanche per un istante quello – storico – eseguito dal fu (leggendario) Eddie Hazel sul disco.
La festa, come detto, è in platea, dove si balla e si canta, ma anche sul palco, dove domina un’atmosfera rilassata e goliardica, si celebra il compleanno di qualcuno della troupe (con tanto di torta), si danza e ci si trastulla, e appaiono personaggi della mitologia P-Funk come Sir Nose D’Voidoffunk. Ma il Funk, quello non viene meno. Mai, nemmeno per un istante. Dopo 2 ore e mezza (volate) di musica Clinton & Co. si congedano sulle note di Atomic Dog (dall’album solo dell’82 ‘Computer Games’), un pezzo che le generazioni più giovani conoscono a memoria per via dei ripetuti campionamenti (o plagi?) effettuati da Snoop Dogg e Dr.Dre. “Bow wow wow yippy yo yippy yay”, cantano il vecchio George e i suoi accoliti, e ugualmente cantiamo noi, duemila voci all’unisono. Potenza del P-Funk. E dimostrazione di competenza e passione di un grande artista che nonostante la veneranda età – e un po’ a sorpresa, a dirla tutta - ci ha regalato uno dei concerti più gustosi e avvincenti di questo finale di stagione estiva.
Articolo del
03/08/2015 -
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