Il concerto viene aperto dalla esibizione delle Nugent & Belle, uno duo pop folk femminile, una irlandese, l’altra scozzese, che ha presentato brani tratti da 'Seeing Stars', il loro album d’esordio. Ci sono piaciute canzoni come Bloodlines, Giving You Up e Doves, brani semplici , per chitarra e voce , ma carichi di atmosfera e melodiosi.
Intorno alle 21,30 arriva il momento di Sixto Rodríguez, musicista ispano americano, l’uomo che visse due volte: dimenticato dall’industria del disco e onesto muratore nei sobborghi di Detroit per oltre venti anni, rock star dal 1998 in poi, quando i suoi album vengono ristampati e tutti si accorgono del valore effettivo di 'Cold Fact' (1970) e di 'Coming From Reality' (1971). Sarà poi Il film documentario intitolato 'Searching For Sugar Man', diretto dal regista svedese Malik Bandjellou, presentato al Sundance Film Festival, a raccontare al grande pubblico la storia della sua vita, un percorso così straordinario che il film arrivò all’Oscar a Los Angeles nel 2012.
Adesso, quaranta anni dopo, i suoi concerti fanno registrare il tutto esaurito un po’ ovunque e lui, Sixto, è deciso a riprendersi quello che la vita non gli aveva concesso in precedenza, ad assaporare il successo, la notorietà, l’affetto del suo pubblico, malgrado i suoi 73 anni d’età, qualche acciacco e seri problemi di vista. Accompagnato in tour anche in questa occasione da sua figlia, che introduce brevemente il live act, Rodriguez ci regala perle musicali che risalgono chiaramente ai primi anni Settanta, che rispondono a titoli come I Wonder, Like Janis, Crucify Your Mind e Sugar Man, ma che suonano quanto mai nuove e corroboranti, grazie a quel mix di voce, testi e musica che portano a buon diritto il nome di Rodriguez accanto a quelli più noti della canzone americana di protesta dello stesso periodo. Sempre dalla parte degli ultimi, rock ballads scarne, dure ed essenziali che cantano le storie di chi vive ai margini delle grandi metropoli americane; poetica di grande impatto e sincera anche perché Rodriguez è stato, per lungo tempo, parte di quella realtà.
Sixto, perché lui era il sesto figlio di una famiglia povera di origini messicane, scoperto per caso nel 1967 al Sewer, un club di Detroit, da due discografici che vedevano in lui del talento indiscutibile. Sixto, poche copie vendute, album ben presto fuori catalogo, torna a fare il muratore ma studia anche, ai corsi serali, e diventa più tardi, un insegnante. Non abbandona mai la musica, scrive, ma per se stesso, non conosce la luce dei riflettori, anzi la detesta. Preferisce restare nella sua casa a Woodbridge, Detroit, senza tv, senza riscaldamento. Forse è proprio questa biografia, di assoluta purezza, così incontaminata e per alcuni versi estrema, che ha attirato un pubblico molto giovane questa sera, ragazzi che hanno urlato il suo nome dall’inizio alla fine dello show.
Sixto confessa candidamente di non aver avuto tempo per il soundcheck, mette a punto la chitarra sul palco e - oltre alle sue ballate sofferte - offre a quanti sono lì per lui delle cover version molto indovinate: La Bamba di Ritchie Valens, Only You dei Platters, Blue Suede Shoes di Carl Perkins e Somebody To Love dei Jefferson Airplane.
E’ puro rock and roll, c’è tanta voglia di ballare e gli addetti alla sicurezza non sempre riescono a tenere a freno l’entusiasmo crescente. L’indubbia radice psichedelica delle composizioni “vecchie” di Sixto Rodriguez porta le stesse ad essere nutrimento essenziale per quanti ascoltano adesso gruppi della scena “indie”. Questo spiega perché il nome di Rodriguez è più diffuso fra studenti universitari e giovani liceali, mentre risulta poco noto a quanti procedono solo attraverso il culto delle icone, mostri sacri tipo Bob Dylan e Joan Baez, ai quali però il buon Sixto non ha nulla da invidiare.
(La foto di Rodríguez al Gran Teatro di Roma è di Giancarlo De Chirico)
Articolo del
21/05/2015 -
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