Incredibile ma vero ieri sera l’Init ha rispettato gli orari del post su Facebook. Sarà perché era lunedì e le band solo due, o forse per la pioggia e le temperature in ribasso. Non lo sappiamo con certezza, sta di fatto che siamo riusciti a tornare a casa entro le 0.30 riuscendo a vedere tutto il concerto senza rinunciare a nulla.
Alle 22.00 siamo davvero pochi in sala, un giro al merchandise e qualche saluto agli amici e alle solite facce note degli addetti ai lavori e si parte con Alison Chesley, in arte Helen Money. Cello in controluce al centro del palco, pedaliera a terra e archetto sono le armi a disposizione di quest’artista che ha suonato su oltre 150 dischi del metal e dintorni. I suoni stridenti e lugubri fuoriescono fluidamente dal suo strumento, una specie di ascia a corde capace di evocare il demone metal che è in ognuno noi. Si esibisce in silenzio, il suo e quello degli astanti, attenti ai suoi movimenti e a ciò che propone. Solo applausi alla fine di ogni take che sommate fanno quaranta minuti fra passaggi rarefatti e violenti spasmi metallici. Helen è molto apprezzata dal pubblico e scende vincente dal palco verso le 22.50.
Intanto i Mono, passano dall’ingresso tenendo delle pizze, sorridono random ai presenti. Il tempo di ordinare un gin tonic ed eccoli sul palco. Partono come su disco, The Last Dawn, proponendo un crescendo lento che diventerà, più volte nel corso della serata, un muro di suono facilmente accostabile ai Mogwai. Ma la loro natura è ferina e più vicina all’idea di musica classica e sinfonica per quel che riguarda il songwriting. Sono in quattro, Takaakira Goto (chitarra), Hideki “Yoda” Suematsu (chitarra), Tamaki Kunishi (basso/tastiere) e Yasunori Takada (batteria), e sebbene le esplosioni sismiche siano solo uno dei punti di forza, la marcia in più (per quel che ci riguarda) sta in quella capacità naturale di evocare atmosfere cangianti e saliscendi emozionali. Le due chitarre si danno il cambio nella conduzione del leitmotiv armonico e nell’ottundente produzione di sfuriate quasi noise che sferzano le loro composizioni. Si fluttua su temi eterei, si soffre su accessi d’ira di matrice post hard core. Nel frattempo, prendendo dal presente e dal passato, è passata quasi un’ora conclusa da una micidiale suite, dieci minuti al cardiopalmo. Ashes In The Snow (Hymn To The Immortal Wind) si presenta nella sua scintillante veste armonica, un highlight assoluto. Ci avviciniamo pericolosamente alla fine del concerto ma c’è spazio ancora per altri venti minuti di pura classe. Poi i quattro cavalieri del post rock stanno via giusto qualche minuto per ritornare distribuendo autografi sul bottino dei presenti che scippano anche qualche foto ricordo. C’è ancora una chitarra sul palco e uno di loro non sembra averne avuto abbastanza. A quel punto ci dirigiamo verso casa prima che gli salti in mente di rimettersi a suonare, sarebbe la fine per noi.
Impressiona tanto che i giapponesi non dicano una sola mezza parola durante il live, mi ricordano il laconico: “Thank you very much indeed” di Gilmour nel tour di 'Pulse' del 1994. Le chiacchiere stanno a zero e la musica vince su tutto. Esperienza da incorniciare.
SETLIST:
Recoil, Ignite Unseen Harbor Kanata Pure as Snow (Trails of the Winter Storm) Halcyon (Beautiful Days) Where We Begin Ashes in the Snow Everlasting Light
Articolo del
29/04/2015 -
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