Una delle date più attese e massacranti di questo 2015, omaggio all’industrial metal, si consumerà stasera all’Init. Le band previste sono ben quattro il che farà lievitare a dismisura i tempi già dilatati della venue. Non è una novità, la fastidiosa moda di far salire tardi le band sul palco continua a flagellare gli astanti costretti a sopportare questa irrispettosa realtà.
Infatti i Disumana Res, primi a salire sul palco, si presentano più o meno alle 22.45. Con un solo album all’attivo, la formazione bolognese è una specie d’istituzione nel campo del metal industriale. AB, MC, RS, che non sono rari gruppi sanguigni, ma gli acronimi dietro cui si celano i tre membri della band responsabili di questa pesante esplosione attraverso colpi possenti, urla gutturali, samples e chitarre ribassate. Fanno quaranta minuti che non lasciano spazio a dubbi, li promuoviamo nonostante l’acustica in qualche passaggio non sia del tutto all’altezza.
I Deflore sono una vecchissima conoscenza, sono in due: Christian Ceccarelli (Basso, Samples, Synths) e Emiliano Di Lodovico (Chitarra, Synths). Propongono un mix di suoni sferraglianti mischiati a samples e feedback. Il loro approccio elettronico ha qualcosa d’inafferrabile e psicotropo. Mi ricordano in parte i Ministry ma sgusciano verso sezioni elettroniche più eteree. Una leggera venatura sabbathiana, negli intenti più che nei suoni, appare in lontananza mentre basso e chitarra si fanno la guerra in una caccia senza battute d’arresto. Passano il turno senza neanche aspettare il risultato della votazione, sanno come vincere.
I SYK avrebbero potuto essere la proposta più “originale” di questa serata ma ahimè la loro musica soffre di una totale mancanza di precisione e sviluppo delle trame. Manca l’attenzione verso i dettagli e sebbene la chitarra agogni l’amplesso con la batteria il risultato è altalenante e così ricco di slegature da sembrare il disperato tentativo di dialogo fra due persone che parlano lingue diverse. Mischiano riff granitici a tempi governati dalla matematica, ma la fusione fra i due non avviene quasi mai in sincrono. La loro performance, fra l’altro, è ampiamente compromessa dall’acustica. La voce, o quel che ne resta dopo mezzora di urla disperate, della cantante è profondamente sepolta dal peso degli altri strumenti e soccombe al volume della chitarra che sovrasta tutto il resto. Nonostante il batterista si sfianchi, attraverso bordate sonore, il risultato è quantomeno discutibile. Quaranta minuti in queste condizioni sono davvero troppi. Sulla lunga sono la noia e l’insofferenza a subentrare.
Sono le 0.15 e finalmente il loro set finisce, il silenzio ci sembra un regalo inaspettato e piacevole. Passa almeno un’altra mezz'ora prima della materializzazione di Justin Broadrick e G.C. Green. Scenografia spartana dal taglio inquietante (crocefissi, maschere greche, incendi e volti estranianti incalzati da bassi mostruosi e drum machine a pieno regime), acustica efficace e suoni intellegibili, c’è tutto insomma. Superato qualche problema nella spia di fronte al chitarrista, costretto più volte a far segno prima che il fonico si accorga della sua necessità, lo show prende velocità lungo la pista fino all’inarrestabile decollo. È ormai il momento di presentare ai presenti 'A World Lit Only By Fire', album muscolare che arriva con ben tredici anni di ritardo sull’ultimo 'Hymns' consegnandoci un testimone affidabile e abrasivo. Justin è una specie di vatusso che mi da venti centimetri quando lo incrocio in pizzeria. Sul palco ha un fare pacato, sembra distaccato da tutto e intento a montare le sue armi da guerra soniche. Green ci guarda dall’alto come volesse ucciderci tutti, ha un’aria insofferente, probabilmente ci considera delle inutili amebe. Questo suo fare gelido lo rende un mezzo mito vivente completato dall’uso maestoso del basso e dal sound belligerante. Il mio è amore incondizionato, è chiaro ormai.
Apre le danze New Dark Ages, oscura materia premonitrice di un live infernale. Seguono Deadend, Shut Me Down, Life Giver Life Taker e Carrion, prima vera dilatazione della bestie ferita e sanguinante. Sono ancora pericolosi e hanno una mira da tiratore scelto. Chitarre acide e taglienti, basso monolitico e drum machine dalla spinta propulsiva adatta a sollevare questa titanica macchina da guerra. Visti anni fa al Primavera Sound, il loro set ci aveva brasato. C'eravamo ripromessi di non perderli per nessuna ragione se fossero passati in Italia. Ammettiamo che un po’ di timore per l’acustica ci ha accompagnato fino allo scoppio delle prime note, ma lentamente tutto è andato tutto per il verso giusto.
Il sound corposo, la drum machine incapace d’incepparsi, la scelta delle giuste distorsioni applicate alle chitarre monolitiche e al basso traitor e la voce intellegibile hanno creato un mix devastante che il pubblico ha apprezzato sin dall’opener. Dopo venti minuti i nostri affondano il colpo dilatando il tempo con una sezione psichedelica devastante. Band geniale e innovativa nella sua semplice spartanità, i Godflesh vincono a mani basse uscendo trionfanti dalla venue romana. L’effetto ottenuto, nonostante la pesantezza dei suoni, è quello di volerli rivedere al più presto.
Il mattino successivo, non potendo partire per Milano per bissare l’evento, non possiamo far altro che prendere uno dei loro dischi e metterlo a volume 17 nel vano tentativo di colmare il gap di questo mancato amplesso con la carne degli dei.
Articolo del
14/04/2015 -
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