“Digital Witness Tour” è il nome del tour che sta portando in Europa e America Annie Clark, in arte St. Vincent per promuovere il suo ultimo lavoro dal titolo omonimo, un eclettico capolavoro di suoni rock amalgamati a basi elettroniche d’ispirazione dance. Due le fortunate città italiane che hanno ospitato lo show: Roma e Milano. Sia l’Auditorium capitolino che l’Alcatraz hanno rischiato di registrare il tutto esaurito. Infatti, arrivato alle porte del rinomato locale milanese trovo, già un’ora prima del concerto, una discreta quantità di persone in fila per conquistarsi i primi posti. I musicisti di apertura sono The Coves, band inglese che non riesce a raccogliere né lodi ne infamie scivolando un po’ via tra melodie monotone e uno show nella media un po’ fiacco.
Terminati gli ultimi preparativi sul palco si spengono le luci e, finalmente, fa l’ingresso la band al completo. St. Vincent, seguita da un boato accogliente, fa l’ingresso sulle note del sintetizzatore ritmico e distorto di Rattlesnake, brano che apre anche il suo ultimo lavoro. I suoi movimenti sono innaturali, piccoli passi veloci, robotici. Il viso è spiritato e lo sguardo deciso, a seconda della prospettiva beffardo e malizioso, la voce eterea. ”Runnin', runnin', no one will ever find me” canta prima di impugnare la chitarra e i fan, che non aspettavano altro, tremano per ogni bending dell’assolo distorto. Vero e proprio marchio di fabbrica firmato St. Vincent.
Così il concerto è un susseguirsi di luci stroboscopiche, strani balletti coordinati con la tastierista polistrumentista Toko Yasuda, dalle gestualità e mimiche simboliche e misteriose. A seguire Rattlesnake c’è Digital Witness e dopo ancora Cruel, un brano lavorato su un beat disco alternato ad un riff di chitarra particolarmente funky. Dopo questo primo terzetto di brani si concede una chiacchierata con il pubblico: “Sapete…credo che abbiamo un paio di cose in comune: siamo tutti nati nel Ventesimo Secolo e tutti noi, come quando sognavamo di volare con i cartoni della pizza al posto delle ali, non abbandoneremo mai la speranza”. Il concerto riprende con la spasmodica e complessa Marrow, brano un po’ più datato rispetto ai precedenti. Non mancano cornici più movimentate come Actor Out Of Work dove la trama vocale si lega alla base di chitarra e synth coordinata alla perfezione.
Nonostante la predominanza numerica della strumentazione elettronica, la regina indiscussa della scena è la chitarra e St. Vincent è una donna dalla maestria unica in questo strumento. La naturalezza con cui si destreggia in fraseggi articolati durante le parti cantate, le permette di fondersi con lo strumento facendone un’estensione del proprio corpo, una parte di sé. In brani come Surgeon ci ipnotizza con fraseggi che rasentano il jazz mentre in Huey Newton traccia uno spaccato nella canzone con un riff solido e corposo. Il suono, nella sua resa live, risulta curato nei minimi particolari e la versatilità nell’utilizzo degli effetti, dal whammy al fuzz, durante gli assoli intricati e contorti e pari solo a colleghi del calibro di Tom Morello. Brani più pacati come l’onirica Prince Johnny e I Prefer Your Love ci permettono di comprendere meglio le qualità canore di St. Vincent lasciando più spazio alla sua voce; strumento che padroneggia se non meglio, altrettanto bene quanto la chitarra.
Nella scaletta trovano spazio anche i due brani inediti che verranno rilasciati il 28 novembre in occasione del Record Store Day: Sparrow (eseguito a Roma) e Pieta (eseguito a Milano). Il concerto termina con Your Lips Are Red, un brano del primo album, completamente rimodellato secondo le sonorità più dure ed elettroniche degli ultimi lavori.
St. Vincent si lascia andare tra la folla adorante che la sommerge di flash, la chitarra viene avvolta da una nube di mani mentre sul palco impazza la batteria e le tastiere. Rinsavita da questo delirio, come il risveglio da un incubo, torna la quiete accompagnata dagli ultimi accordi eseguiti senza distorsioni alcune.
Terminato il concerto insieme alla mia ragazza e ad un’altra decina di fan decidiamo di aspettarla fuori dall’Alcatraz nella speranza di poterci scambiare due parole. Dopo un’ora di attesa e una raccomandazione di non usare fotocamere Annie Clark esce dal locale. Sembra vagamente intimorita dalla nostra presenza e l’aspetto da principessa aliena capace di forzare ogni limite creativo ed emotivo sul palcoscenico non potrebbe essere più distante. “How you doin’ guys” “Are you OK?” ci dice un po’ assente prima di entrare sul pullman e lasciare Milano definitivamente.
(Foto di Francesca Anne Melacarne)
Articolo del
21/11/2014 -
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