Una live performance di Ben Frost ovvero il tentativo di riprodurre in musica il clangore primordiale che ha dato origine al mondo. Sonorità laceranti, al limite della provocazione uditiva, mettono a tacere il fastidioso brusio di un pubblico che sembra più interessato ai vuoti convenevoli, bagnati da fiumi di birra, che al concerto. I bagliori accecanti di un raggio laser quasi ci impediscono di vedere cosa succede sul palco, dove Ben Frost, musicista australiano residente a Reykjavik, in Islanda, presenta dal vivo 'Aurora', il suo ultimo lavoro. Il disco è stato concepito due anni fa sul computer portatile di Ben, in Congo dove il musicista si era recato insieme al video artista Richard Mosse, che voleva documentare il sanguinoso conflitto in atto. Ma poi l’album è stato sviluppato successivamente in Europa, insieme a Greg Fox, Shahzad Ismaily e a Thor Harris, il batterista degli Swans di Michael Gira, una band che ha influenzato molto gli ultimi sviluppi artistici del compositore australiano.
Ma, al contrario di quanto succede dal vivo durante un concerto degli Swans, non ci sono chitarre elettriche questa sera, se non quella che Ben percuote selvaggiamente - al solo fine di ricavarne distorsioni indicibili - proprio all’inizio della sua esibizione. E’ una scelta, si tratta di un intento preciso, che ha il solo fine di azzerare qualsiasi punto di riferimento armonico e rappresentare sul palco il dolore, la sofferenza, il sangue, quelle migliaia di corpi esanimi distesi lungo le strade durante la guerra civile in Congo. Ben Frost è accompagnato sulla scena in qualità di live drummer, da Greg Fox, un batterista che asseconda alla perfezione le continue variazioni, i loop, le campionature e i feedback programmati all’interno dell’apparato elettronico. Colpi di una violenza inaudita si abbattono sulla gente del venerdì sera che ora ha smesso di ridere, di parlare, di bere, di giocare. Sì, adesso anche i più giovani cominciano a rendersi conto di cosa sta succedendo di fonte a loro, di quanto li aspetta, dell’orrore che racconta in musica Ben Frost e non resta loro che implorare che tutto finisca presto, il prima possibile, che la dimensione “discoteca” prenda il sopravvento. Ma non è così: oltre un’ora di sonorità devastanti che comunicano alle nostre viscere - prima ancora che alla mente - che cosa significa una guerra civile, tutti contro tutti, un odio generalizzato, che sembra infinito. Il fragore ancestrale di composizioni come Nolan, Secant e di Venter non possiede proprio niente di armonico. E’ materia incandescente, è come la lava vulcanica, è il pulsare folle e senz’anima di una macchina infernale che va ben oltre la dimensione di facili etichette come industrial o noise.
Giunto quasi alla metà della sua performance Ben Frost include nel suo set composizioni tratte da 'By The Throat' ("Per la gola"), l’album precedente, brani che si adattano bene al live act di questa sera. Quel senso di soffocamento che impedisce all’ossigeno di arrivare al cervello, quel tipo di morte che provoca il morso di un lupo - il cui rantolare cupo e selvaggio è riprodotto con fedeltà assoluta (ed agghiacciante) nelle campionature di Frost - è da paragonare allo stato mentale alterato di chi vive in un contesto di disperazione e di morte, in Africa e altrove, in un mondo che sembra tornare paurosamente ai primordi. Suggestioni ambient, elementi propri del drone metal, porzioni di Afro Sound e di Techno convivono con un’elettronica spinta all’interno di una performance solo strumentale, che non vuole mai essere consolatoria, che non è mai accattivante.
Solo nel finale, l’intervento di una tastiera sembra portare all’interno della performance un elemento di speranza, quello della rinascita, dell’Aurora, dopo una notte buia. Musicista sperimentale, sempre pronto a mettersi in discussione, Ben Frost si lascia dominare dalle sue stesse creazioni. Viene come trascinato in vortice emotivo in cui le macchine diventano dominanti, quasi lo padroneggiano. Frost cerca nella musica un sostituto dell’anima, un qualcosa di non tangibile, che alla fine possa rassicurarci, possa calmare le nostre ansie. Il fragore del suono mina l’identità individuale di ciascuno di noi, in primo luogo dell’artista che lo produce, la dissonanza porta a dimenticare se stessi, le fragilità, i nostri limiti. Un’elettronica che possiede una dimensione quasi psichica, che trova eccitazione e risposte nel suo dimenarsi casuale e selvaggio diametralmente opposto a quel set di regole tradizionali che ne caratterizzavano le origini. Cosa c’è dietro quel bianco accecante che ci ferisce ad ogni nuovo sussulto delle macchine di Frost? C’è forse quell’essenza delle cose che non riusciamo mai a dominare? C’è il caos originario da cui è nato il pianeta Terra? Annichiliti da tali pensieri, ovattati da tanto clangore, proviamo a prendere a tarda notte la strada di casa.
(La foto di Ben Frost al Warehouse è di Viviana Di Leo)
Articolo del
10/11/2014 -
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