La serata all’Init prevede tre gruppi, come spesso accade in questa venue nonostante l’orario d'inizio sia indicata per le 21.30 il locale apre dopo le 22.15. Dentro ci sono solo le band e gli addetti ai lavori ma qualcosa non torna, sul palco non c’è nulla. Sul pavimento della sala giacciono una batteria e una serie di vari Amplificatori fra cui due Orange. Potrebbe essere una trovata dei Death Valley, band olandese in apertura, ma non è così, quest'assetto accompagnerà l’intera serata.
Alle 22.40 i Death Valley, trio, salgono sul palco provando la diavoletto che da sola fa tremare le pareti dell’Init. Dalle note, dai legati e ribattute veloci ci si mette poco a comprendere che il chitarrista è un virtuoso dello strumento e un adepto di Hendrix. Fanno mezz’ora molto intensa, il cantante magro e dinoccolato ha capelli lunghi e si sbatte come un posseduto per far fuoriuscire la sua voce squillante. Sputano del sano Rock and Roll ma quando rallentano per imbarcarsi su una cavalcata space rock di ben dieci minuti raggiungono davvero ottimi risultati passando a un livello superiore. Promossi.
Dopo 20 minuti, durante i quali appare qualche anima in più, sotto il palco (suona davvero strano scriverlo) arrivano i Dirty Fences. Partono con C’mon Everybody ma è un falso allarme, serve solo per scaldare gli strumenti. A questo punto è evidente che nessuna delle band ha fatto il check. Loro suonano del Rock and Roll sporcato di Punk e lo fanno dannatamente bene, infilano quaranta minuti di puro delirio Punk-Roll con melodie facili da assimilare, cassa dritta e energia tellurica. Il loro show scorre liscio ma forse con un pizzico d’incisività dei loro precedenti colleghi.
E finalmente dopo la mezzanotte ecco The Shrine, anch’essi in tre, voce/chitarra, basso e batteria. Josh Landau, leader e chitarrista, non è altro che la controfigura della controfigura di Er Monnezza. Lunghi capelli castani, i cui ricci vengono bloccati dal cappello che sembra essergli stato pianto in testa con chiodi da 12’. Completano l’opera baffi, un tutt’uno con la barba, e una Gibson Les Paul che non ha segreti per lui. Al suo fianco il basso è affidato a Courtland Murphy la cui dolce metà ritmica è Jeff Murray, alle pelli. I californiani sono un portento, sciorinano quasi un’ora di sano Rock and Roll obliquo, in tutta onestà è qualcosa di trasversale e instabile, in continuo divenire come il mood di Landau. Sono debitori del Rock and Roll più caustico e dei Black Flag, ma la loro vera natura emerge man mano con gli omaggi agli inconfondibili riff scolpiti 30 anni fa da Tony Iommi. Le chitarre e il canto sludge, i rallentamenti stoner e le continue ripartenze, fatte di magma blues durante i furiosi assoli, non lasciano dubbi in merito: questi signori adorano il Sabba Nero (Nothing Forever).
Non manca qualche momento di stanca - è vero - ma a complicare le cose verso l’una ci si mette il jack del microfono. Nonostante Landau stia sia già occupato a cantare e suonare prova pure a sistemarlo. Ma c’è poco da fare, la défaillance tecnica persiste almeno fino all’arrivo del salvatore della patria nella figura di uno dei Dirty Fences che, ipotizziamo, esasperato dal mancato arrivo di un tecnico interviene per settarlo correttamente. Ma ormai è fatta e, almeno sembra, che nonostante il problema sia stato risolto Josh abbia perso la concentrazione e la voglia di suonare oltre. Lo show è snellito di almeno un paio di brani e nonostante i disgraziati presenti chiedano a gran voce un encore il tutto è ormai finito sulle note di And The Circus Leaves Town dei Kyuss vomitate dall’impianto del locale.
Il messaggio pare chiaro, quale titolo più esplicativo per tornarsene a casa con un po’ di amaro in bocca? Alla prossima Josh.
Articolo del
28/10/2014 -
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