Viviamo tempi di hype, di eccessi e di forzature, in cui ogni santo giorno i blog, i social network e i quotidiani di riferimento pompano un concerto dopo l’altro non facendosi remore a usare termini come “immancabile”, “imperdibile”, “evento dell’anno”, “del secolo” e perfino “del millennio”. Tutte balle spaziali, com’è ovvio, a cui non dar credito neanche per un istante, anche perché il tempo ci ha reso saggi oltre che cinici e oggi sappiamo benissimo che di regola l’”evento” - quello vero - si nasconde negli anfratti più reconditi e meno frequentati, nella forma magari di un’ esibizione da 200 persone al localino sotto casa (per fare un esempio: la venuta di Mark Kozelek lo scorso aprile, di recente anche immortalata nel suo CD dal vivo al Biko di Milano). Prevale dunque un sano scetticismo, ed è con questo stato d’animo che abbiamo, di base, approcciato la Cavea dell’Auditorium l’altra sera, per l’unica data italiana dei Kraftwerk in 3D. Perché – diciamocela tutta – i “veri” Kraftwerk non esistono più da anni, anzi, da diversi lustri. Oggi è rimasto solo il lider maximo Ralf Hütter e non c’è neanche più il suo amico e sodale di sempre Florian “V2” Schneider che nel 2008 ha preferito ritirarsi per godersi la meritata pensione; Karl Bartos e Wolfgang Flür, poi, sono stati “licenziati” da tempo, rispettivamente nel 1991 e nel 1987, e quest’ultimo ha anche scritto un polemico tomo biografico, Io ero un Robot (Shake Edizioni) – molto poco apprezzato dai suoi boss Hütter e Schneider – in cui ha svelato tutti gli altarini di una band molto più “umana” di quanto comunemente non si pensi. Per non parlare della discografia di studio dei Kraftwerk, ufficialmente ferma ai Tour de France Soundtracks del 2003 ma che in realtà ha smesso di essere viva, vitale (e seminale) almeno dal 1986 (!), l’anno di Electric Cafe.
Elucubrazioni, queste, inutili ed errate, perché dal momento in cui i quattro Kraftwerk si manifestano sul palco - un po’ ingrigiti nelle loro tute aerodinamiche che rivelano anche un po’ di “panza” – si ha subito l’impressione di stare per assistere a qualcosa di speciale, forse per una volta – lo volesse Iddio – anche di “unico”. WE ARE THE ROBOTS, annunciano come da programma. I Robots, chiaramente, sono loro, chini privi di emozioni sulle loro scrivanie digitali. Ma lo siamo anche noi spettatori in platea e tribuna, ognuno con i suoi occhialetti 3D consegnatici all’ingresso: (a voltarsi) un colpo d’occhio pazzesco, un’immagine tratta da un futuro che avevamo solo immaginato di quando in quando tra gli anni Settanta e Ottanta ma senza mai davvero credere che un giorno potesse divenire realtà.
Quando partono le immagini in 3D alle spalle dei Kraftwerk, invece, diventa palese che il futuro è qui, è tra di noi, adesso. I manichini rossoneri della copertina di The Man Machine sono anche loro in mezzo a noi, talmente vicini da toccarli (se non fosse un’illusione), mentre la musica elettronica è partita e non lascia tregua. Lo sguardo dello spettatore fa la spola tra i “nuovi mondi coraggiosi” disegnati dal 3D e i quattro uomini di mezz’età in piedi sul proscenio: all’estrema sinistra l’anziano Ralf, 68 anni, un gigante della musica moderna, una vaga somiglianza con l’attore Bill Murray. Poi, alla sua sinistra, i tre sostituti di Florian, Karl e Wolgang: Fritz Hilpert alle percussioni elettroniche, Henning Schmitz alle percussioni elettroniche e al sintetizzatore, Falk Grieffenhagen alle proiezioni video. Si affastellano – in teoria sullo schermo ma in pratica sulle nostre teste – le immagini di numeri in tutte le lingue del mondo, per il secondo brano Numbers. Questa prima parte è dedicata al “profetico” album del 1981, Computer World, con il quale i Kraftwerk scrissero la colonna sonora di un futuristico universo lungi da venire dove l’informatica è parte integrante – oltreché totalizzante e alienante - della vita umana, in cui i rapporti uomo/donna si svolgono tramite dispositivi digitali (Computer Love) e uscire di casa è un’opzione a cui è preferibile rinunciare perché… It’s More Fun To Compute. Vi ricorda forse qualcosa?
Da notare, alla fine di questa sezione, gli scroscianti applausi per l’omaggio all’Italia di Pocket Calculator che, cantata nella nostra lingua da Ralf, diventa “Il Mini-Calcolatore” (già presentata in questa forma ai tempi dell’uscita del disco, al programma Tv “Discoring”, compresa l’immortale strofa “Se spingo un bottone lui fa una canzone”).
La porzione in assoluto migliore del concerto, e quella che resterà a lungo nelle nostre orecchie e nei nostri occhi, è però quella dedicata agli immortali classici degli anni (1974-1978) in cui la band di Dusseldorf rivoluzionò da cima a piedi la musica moderna. Con Spacelab l’animazione in 3D ci porta a fluttuare nella serenità dello spazio interstellare, con un satellite che sembra puntare dritto verso la nostra fronte; arriva quindi il techno-glamour della ballabile The Model, in assoluto il più grande hit che i Kraftwerk abbiano mai avuto nel remoto 1981, nota anche per la cover “noisy” che ne fecero i Big Black di Steve Albini; poi la suadente Neon Lights, ancora alienazione urbana in una vasta metropoli che potrebbe essere localizzata negli anni Settanta (quando fu scritto il pezzo) come nel nostro 2014; e infine il clou del concerto tutto, una versione da quasi dieci minuti di Autobahn, capolavoro assoluto datato 1974 in grado di influenzare in un sol colpo generi che tra loro hanno (in apparenza) poco in comune come la New Wave, l’Elettro-Pop, l’Hip-hop e la House Techno di Detroit. Leggermente deludente invece Radioactivity (1975) stravolta nell’arrangiamento, e fin troppo diluita rispetto all’originale. In origine le liriche parlavano dell’”attività” delle “stazioni radiofoniche”, ma Ralf Hütter negli ultimi tempi ne ha voluto trasformare il significato, trasformandola in una protest song anti-atomica, dove cita ex-novo Hiroshima, Sellafield, Chernobyl e Fukushima (ossia i luoghi in cui sono avvenuti i peggiori disastri nucleari di sempre) e canta il testo, parzialmente, in giapponese. Il messaggio che lampeggia più volte sullo schermo (“Stop Radio Activity”) non lascia alcun dubbio su quale sia l’opinione di Ralf Hütter sullo scottante argomento.
Da qui in poi (con l’eccezione di Trans Europe Express, altro brano cardine datato 1977) si vira verso la produzione più recente dei Kraftwerk e i suoni iniziano a diventare più “techno” - ossia più “muscolari” - con le musiche di Tour De France e le immagini in bianco e nero di ciclisti impegnati in sforzi sovrumani avvicendate a quelle di modellini che descrivono la tecnologia precisa, sofisticata, delle più moderne e aerodinamiche biciclette. Sempre di uomini-macchina, in fondo, si tratta: non deve quindi destare meraviglia che il ciclismo sia da sempre – a parte i Kraftwerk - l’altra grande totalizzante passione di Ralf Hütter e Florian Schneider.
La serata si conclude con quattro brani tratti dal sottovalutato album dell’86 Electric Cafe (ribattezzato nelle recenti ristampe Techno Pop), con i quattro Kraftwerk che, uno dopo l’altro, si allontanano con discrezione dal proscenio e, dopo aver fatto un garbato inchino, si rifugiano nel backstage. L’ultimo ad accomiatarsi, naturalmente, è Ralf Hütter, che riceve – e ci mancherebbe altro che non la ricevesse – un’ovazione che sembra non dover finire mai.
Stiamo per dirigerci verso l’uscita, perché i Kraftwerk, di norma, non dovrebbero concedere bis, loro che sono così “europei” e assolutamente all’antitesi di tutti i clichè dello show business, e invece – clamorosamente - li vediamo tornare in scena e riprendere i posti di comando. E’ a questo punto che l’Auditorium diventa una incontenibile bolgia, tutti assiepati sotto al palco, una marea di mutanti con gli occhialini inforcati, a ballare i Kraftwerk (che non è proprio come “ballare i Joy Division” ma… quasi) di Aerodynamik e del loro pezzo più recente, quella Planet Of Visions composta nel 2000 per l’Expo di Hannover.
E così i Kraftwerk ci hanno sbalordito per l’ennesima volta proponendoci non tanto (o perlomeno, non solo) una performance di musica elettronica, ma una vera totalizzante immersione nel loro peculiare universo spazio-temporale, un’esperienza sensoriale unica e forse irripetibile (se non altro perché vederli una seconda volta potrebbe produrre minore effetto). Se questo è il presente, i Kraftwerk in 3D sono una macchina talmente rodata che un giorno - forse neanche troppo lontano - Hütter potrebbe sostituire anche se stesso, senza che lo spettacolo ne vada minimamente a risentire. I Kraftwerk come brand insomma: è questa una possibile visione del futuro che il gruppo di Dusselforf ha iniziato a farci intravedere, l’altra sera, al netto delle sue elektro-melodien e delle proiezioni in 3D. Se si tratti di un futuro utopico o piuttosto distopico, è un giudizio che lasciamo volentieri allo spettatore/lettore, che potrà darsi una risposta sulla base delle sue idee e della sua sensibilità. Sul concerto dell’altra sera invece non c’è assolutamente alcun dubbio: evento dell’anno. (Per ora limitiamoci, “sobriamente”, al 2014, poi tra qualche anno si vedrà).
SETLIST:
The Robots Numbers Computer World It's More Fun to Compute Computer Love Pocket Calculator (in italiano) The Man-Machine Spacelab The Model Neon Lights Autobahn Radioactivity Tour de France Tour de France Étape 1 Tour de France Étape 2 Tour de France Étape 3 Trans-Europe Express / Abzug / Metal on Metal Electric Café Boing Boom Tschak / Techno Pop / Musique Non Stop
Encore: Aéro Dynamik Planet of Visions
Articolo del
21/07/2014 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|