Una volta di una band appena uscita sapevi poco o niente, album a parte, finché non andavi a vederla dal vivo. Una volta, senza Tubo e Facebook, i gruppi rock te li pigliavi così, sulla fiducia. Oggi invece... è esattamente la stessa cosa. Anche oggi, infatti, è possibile andare ad un concerto senza conoscere quasi nulla della band in questione: le facce, l'età, se se la portano bene, come vestono, come suonano, se la scaletta è ingessata o se la cambiano ogni volta. Un po' perché la scelta di non sapere e di isolarci dal sovraccarico di informazioni fa sempre vintage, un po' perché in Rete i contenuti sono illimitati sì, ma solo se qualcuno ce li carica.
E’ per questo che, pur adorando entrambi i dischi dei Toy pubblicati fino ad ora, siamo rimasti di stucco nel vedere per la prima volta questi cinque stralunati ragazzetti inglesi emergere dall’oscurità del retropalco come catapultati da un altro pianeta. Tipico immaginario rock d'altri tempi: pallidi, smilzi ai limiti della malnutrizione, i volti nascosti da fluenti chiome shoegazer perennemente protese verso il basso. Derivativi all'ennesima potenza anche nel look, ma potenti quanto basta per prenderci di forza e portarci a spasso nel tempo. Perché quello che colpisce di loro è la capacità di fare da ponte tra passato e futuro. I Toy sono un omaggio vivente a ciò che è stato ma sembrano l'unica via a quello che sarà. Sanno di storia ma suonano terribilmente freschi e all'avanguardia.
La serata romana che ha chiuso questa loro tre giorni in Italia, dopo le date di Bologna e Milano, è stata un vortice di emozioni ed elettricità condensate in un'ora e venti minuti scarsi di esibizione in cui la band ha eseguito quasi per intero il nuovo album, Join The Dots, uscito in chiusura di 2013, e una manciata di pezzi dall'omonimo, fulminante esordio dell'anno precedente.
Il pubblico non è quello delle grandi occasioni, ma mai come in questo caso quantità non fa rima con qualità, dal momento che nel parterre si scorgono t-shirt con in bella vista l'effige “mbv” e qua e là qualche testa brizzolata di astanti un pochino più attempati la cui presenza nobilita ulteriormente questa band di appena ventenni.
La scaletta oscilla quasi scientificamente tra un album e l'altro della loro ancor breve carriera. E così, dopo l'opening affidata alle atmosfere apocalittiche e postatomiche della strumentale Conductor, che apre anche il nuovo disco, ecco il primo salto indietro all'altra “overture”, Colours Running Out, per poi tornare avanti con Too Far To Know e di nuovo a Dead And Gone.
Lo spettacolo è martellante, concreto. I pezzi si susseguono a ritmo vertiginoso. A tratti sembrano i Neu! che hanno ingaggiato Kevin Shields se fosse nato vent'anni prima; a tratti i primi R.E.M., tra psichedelia e college-rock. Ma c'è spazio anche per virate noise e dilatazioni. Saranno pure smilzi ma alzano una cagnara indescrivibile. Il muro di suono creato dalle chitarre è a dir poco impressionante e fa tremare le pareti anguste del Circolo. E poi, nascosta sotto la brace di distorsioni, arde viva quella irresistibile vena melodica molto british che fa di Tom Dougall – voce e chitarra - una delle “penne” più interessanti del panorama odierno, oltre ad essere l'indiscusso catalizzatore di tutte le manovre dal vivo. Inutile dire che la scena se la piglia quasi tutta lui. Posa asettica, impersonale, spocchia tipicamente albionica. Nessuna concessione alla giovialità, non un sorriso, non un ammicco a quelli delle prime file, di biascicare un “grazie” non gli passa nemmeno per l'anticamera del cervello.
E gli altri ? Il bassista “Panda” Barron sembra un novello Cobain con tanto di chioma luccicante chiusa a tendina davanti al viso, il batterista è una macchina da battaglia che fa quello che deve con la precisione di un metronomo, e Alejandra Diaz, l'unica donna dell'ensemble, se ne sta pure lei lì, fredda e immobile, incurvata sul synth per tutta la durata del concerto: non un cenno d'emozione, non un'increspatura del viso, non un bagliore d'umanità negli occhi. Uno spasso, insomma.
Fortuna che suonare riesca a tutti piuttosto bene. E così lo show va avanti tra la Dark Wave di Fall Out Of Love e la marcetta psichedelica di As We Turn, la pressoché perfetta sequela di accordi di Endlessly.e le rasoiate post-punk di It's Been So Long e Motoring. Ma c'è spazio anche per le suggestioni dreamy di My Heart Skips A Beat prima della chiusura affidata all'ossessivo e vorticoso giro di basso di Join The Dots, che ci rimarrà incollato nel cervello per ore. Bis? Neanche per idea, ma va bene lo stesso perché unendo i punti di questa magnifica serata è venuto fuori uno dei live più tirati e adrenalinici della stagione.
Articolo del
19/04/2014 -
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