Ci eravamo preparati al peggio per questa data romana dei Zen Circus. Eravamo pronti al pogo più selvaggio, alle gomitate, agli sputi in faccia, ai bagni di birra...E la realtà è stata peggio di quanto immaginassimo. Ma cosa che vuoi che sia una ginocchiata fra le costole se l'adrenalina scorre così alta nelle vene e se quando ce ne andiamo il fremito in corpo è tale che non prenderemo sonno prima di domattina. Non è per questo che si va ai concerti punk ? E quello dei Zen Circus è un concerto punk a tutti gli effetti. Il trio pisano che da più di quindici anni rivolta come calzini i parterre di tutta Italia, ma non solo, ci regala una di quelle notti difficili da dimenticare, tra punk-folk unto e bisunto alla Pogues e Violent Femmes, e nobile cantautorato italiano alla De Gregori e Rino Gaetano. E quindi già solo le influenze sono da rispettare. Senza contare che il nome della band è il “merge” dei titoli di due lavori degli Husker Du. Insomma, tanta roba. Il Blackout, per l’occasione, è un catino che ribolle di entusiasmo ed è pieno come un uovo tanto che molti sono costretti a seguire il concerto dalla saletta del bar. La serata è aperta dai Progetto Panico. Chi sono ? Boh. Però fanno un casino infernale. E sono prodotti da Karim. Appino e soci entrano in scena alle ventitre in punto e paiono in grande spolvero, dopo tre settimane di break nel tour partito il 7 marzo da Bologna. Carichi, affiatati, gioviali. Sembrano tre ragazzotti spiantati come tanti qua in Italia, tra precariato e un futuro che «me lo bevo per non pensarci» (Appino dixit), ma profumano di storia. Cantano la società odierna ma onorano la tradizione. E così, mentre gli schermi alle spalle dei tre rimandano l’immagine di copertina del loro nuovo lavoro, lo spettacolo si apre con le parole del poeta Giuseppe Ungaretti che riecheggiano nel silenzio della sala e precedono (sul disco stanno alla fine) Canzone Contro la Natura, title-track (al singolare) del nuovo album pubblicato a gennaio per il quale teoricamente sarebbero in tour. Teoricamente, perché ad un concerto dei Zen l'ordine dei pezzi e i criteri per la scelta passano in secondo piano rispetto all'energia pura di questi tre indemoniati. La scaletta più che una sequenza è una mitragliata di pezzi sparati uno dopo l'altro senza soluzione di continuità, molti dei quali non raggiungono i tre minuti, nella più classica tradizione punk. Ci sono le nuove canzoni (alla fine saranno sei) ma anche quelle meno recenti, da I qualunquisti a Canzone di Natale, passando per Aprirò Un Bar, Ragazzo Eroe e Figlio di Puttana, scritta assieme a Brian Ritchie, che da loro rimase affascinato al punto da volerci incidere insieme un disco intero. Ma ci sono anche Andate Tutti Affanculo, We Just Wanna Live e Fino a Spaccarti Due o Tre Denti. I concetti che ricorrono nelle loro canzoni saranno pure elementari, come dice Appino schernendosi sul palco, ma quella dei Zen è una semplicità che coglie nel segno. Che poi scrivere cose semplici è tutt’altro che…semplice. Dopo un’ora e venti di puro delirio e ripetuti boati di entusiasmo di un pubblico in visibilio che canta a memoria tutte le canzoni, la band si concede una piccola pausa condita da radio notiziario “demenziale”, prima di tornare sul palco per i bis tra i quali spiccano i pezzi nuovi come Postumia, uno dei testi migliori del loro repertorio, e Albero di Tiglio, con quella coda strumentale che ti porta via il cervello. Il finale ci ricorda che siamo Nati per Subire, ma solo là fuori, perchè nel Circo Zen si è tutti uguali, e finchè non usciamo da quella porta andate tutti aff…ehm…dove dice Appino.
(La foto di Appino sul palco del concerto al Black Out è di Valerio Di Marco)
Articolo del
13/04/2014 -
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