Apprezzabile intrattenitore sul palco, e musicista di culto, Neil Halstead può vantare una carriera iniziata nel 1990 con i riveriti Slowdive e proseguita con le morbidezze dei Mojave 3, prima di imboccare la strada solistica nel 2002 con Sleeping On Roads. Con altri due album all’attivo, il cantante si è esibito per la prima volta a Roma offrendo una performance tutt’altro che entusiasmante.
Si parte bene con un paio di brani a base di fingerpicking e voce, ma non ci vuole granché a costruire melodie malinconiche utilizzando un’acustica con le accordature aperte. Un dilettante che abbia appreso i rudimenti del fingerpicking riuscirà senza troppa difficoltà a tirare fuori dalla chitarra qualche pezzo quantomeno passabile. Il gioco può reggere per due, tre composizioni, dopo di che, se mancano talento e/o ispirazione, ci si ritroverà in un vicolo cieco.
Questa, forse, la differenza tra un busker qualsiasi e un vero artista. La magia del set di Halstead si spezza rapidamente, perché a mancare (e già immaginiamo che qualcuno si indispettirà per la nostra affermazione) sono proprio le Canzoni con la “c” maiuscola. Quelle che ti afferrano e ti entrano dentro, anche se magari non le conosci; che ti fanno decidere che alla fine del concerto l’album o l’EP che le contiene dovrà essere tuo (l’ultima volta, al sottoscritto è successo con la struggente Bleed suonata da Shannon Wright su questo stesso palco). Quando poi, rivisitando il proprio repertorio, passa dagli arpeggi allo strumming, il musicista sprofonda nel baratro del già sentito: tra rimandi ai cantautori americani e al folk inglese, con il quasi plagio di Northern Sky di Nick Drake (Who Do You Love), gli echi di Dreams dei Fleetwood Mac (!) in Trying To Reach You, e di America di Simon & Garfunkel in Martha’s Mantra, Halstead ci è sembrato tirare un po’ troppo la corda.
Per una questione di cortesia, si applaude comunque alla fine di ogni brano, ma una serata del genere non fa che rafforzare la convinzione che nel 2014 la formula chitarra accarezzata/voce sussurrata non funziona più se non la si propone con almeno un briciolo di personalità. Altrimenti, anche se ciò suona terribilmente passatista, meglio tornare a (ri)scoprire gli originali, magari partendo dai dischi – alcuni davvero meravigliosi – di John Martyn, poco citato autore di cui abbiamo trovato non poche risonanze nelle esecuzioni offerte ai presenti in sala.
Post scriptum: qualcuno faccia sapere ad Halstead che un’esibizione “in solitaria” senza un accordatore è una cosa che (nel 2014) grida vendetta.
Articolo del
08/04/2014 -
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