Premessa indispensabile: non aspettatevi, in questo report, il benché minimo accenno di cronaca obiettiva, impersonale, asettica, ineccepibile dal punto di vista della professione giornalistica. Questo perché, ormai da diversi anni, colei che farnetica in questa pagina nutre per i My Dying Bride un’ossessione che rasenta l’idolatria, una passione violenta e pericolosa (in particolare in fase di arrampicata libera sulle transenne, nel vano tentativo di scattare una foto decente con un cellulare da Terzo Mondo). E se la semplice lettura, a video o su booklet, dei loro testi è in grado di provocarmi ottundimento mentale e delirio mistico, vi lascio immaginare in che condizioni posso ridurmi, avendoli su un palco a tre metri di distanza.
Avete presente quando infilate per la prima volta nel lettore l’album di quell’artista o di quella band che, anche se voi ancora non lo sapete, è destinato a segnare profondissimamente la vostra formazione artistica e musicale? A distanza di tempo, non ricordate ancora con precisione ogni minimo particolare di quel magico momento, compresi i vestiti che indossavate e cosa vi stava urlando vostra madre dalla stanza accanto? Se avete risposto di no, non preoccupatevi: significa che siete persone sane di mente. Solo un esiguo numero di maniaci compulsivi soggetti a gravi forme di musicodipendenza (tra i quali orgogliosamente mi colloco) è abbastanza folle da imprimersi indelebilmente nella testa simili dettagli come fossero un evento epocale. Nel caso specifico, correva l’anno 2000 e il disco in questione era The Dreadful Hours. Fu una folgorazione. Colonna portante del doom-death albionico, insieme ai pur bravi, ma nettamente più commerciali Paradise Lost, e agli Anathema in versione pre-illuminata, la band di Halifax ci regala da oltre vent’anni voragini di sublime tristezza e delicati acquarelli musicali dal gusto gotico, sfumati con una classe inarrivabile. La bellezza della loro arte è declinata nelle categorie della disperazione, dell’oppressione, della tenebra. I riferimenti incrociati vanno da William Blake a John Constable, fino al solito H.P. Lovecraft, vero uomo per tutte le stagioni del binomio metal-letteratura; i vortici infiniti che scaturiscono dagli strumenti dei My Dying Bride ogni volta spalancano un universo iconografico che unisce raffinato romanticismo, morbosa sensualità e abissale angoscia. Ecco, ho cercato di spiegarvi –riuscendo solamente a sembrare una pazza, non ho dubbi – perché i My Dying Bride non somigliano a niente che possiate lontanamente immaginare prima di averli ascoltati con il dovuto raccoglimento. Ma cos’hanno questi doomsters inglesi di diverso da tutti gli altri? Sono inconfondibili, ecco tutto. Poche note che preludano ad una qualsiasi delle loro composizioni sono sufficienti a definire, con abbacinante chiarezza, cosa manca alla maggior parte degli artisti, anche validi, oggi in circolazione: quel “fattore X” (niente a che vedere con beceri talent televisivi, si prega di mantenere rispetto e, possibilmente, venerazione) che li renda unici e riconoscibili. Molto semplicemente, nessun altro è in grado di produrre quei precipizi sonori, quelle sezioni ritmiche innaturalmente dilatate dal basso di Lena Abè, distonie spazio-temporali in cui le vischiose melodie delle chitarre di Andy Craighan e Hamish Glencross si avviluppano come edere malefiche sul growl disumano di Aaron Stainthorpe, producendo un’energia ancestrale che sembra salire dalle profondità della terra per come ti entra dentro e ti sconvolge. Perdonatemi l’aggettivazione sovrabbondante, ma serve a poco tentare di scrivere dei My Dying Bride se questa forza ultraterrena non la si è mai avvertita dal vivo. Ed è un peccato che Aaron Stainthorpe, per via, a suo dire, di una soverchiante timidezza che gli rende pressoché intollerabile esibirsi dal vivo, non sia molto propenso a portare in tour la sua creatura. Si è sacrificato (grazie infinite caro, non lo dimenticheremo) per promuovere il nuovo album, A Map Of All Our Failures. Eccoli dunque in scena, nel freddo devastante di Milano, che senz’altro ha scoraggiato un buon numero di fans poco coriacei. Ma i pochi e pressoché ibernati aficionados che resistono sanno di farlo per un’ottima causa.
Non si può, a onor del vero, trascurare il siparietto offerto dai Talanas, il cui death di stampo tradizionale ben poco ha a che vedere con la Sposa Morente. Godibili, nonostante tutto, soprattutto l’ultimo brano proposto, dall’arrangiamento ipnotico e mutevole, vagamente progressive. Ma è l’intrattenimento che è notevole: a dispetto del look mefistofelico, infatti, il frontman Hal Sinden si rivela un cabarettista mancato, strappando più di una risata alla platea con una smitragliata di battute, non tutte riferibili (da antologia del doppio senso la gag sulla bottiglietta d’acqua).
Assai meno loquace – ma questo già si sapeva - è il buon Aaron Stainthorpe, che tra una canzone e l’altra infila poche parole e ancor meno smancerie (uno che conduce il concerto più o meno allo stesso modo è Dave Mustaine; ma, a differenza di Stainthorpe, Dave ha tutta l’aria di compiacersi profondamente del proprio essere divo e superstar). L’interazione col pubblico è, diciamo così, concentrata in un’unica, micidiale freddura: “Are you having a miserable time?” Soffre, Aaron, soffre indicibilmente a stare là sopra, e contorcendosi manco fosse Cristo sulla croce esprime tutto il suo strazio in una serie di vocalizzi demoniaci e agghiaccianti. Ironia a parte, evidentemente la sua innata ritrosia non gli impedisce di essere anche un ottimo attore oltre che un compositore di rara sensibilità e finezza. La sua performance lancinante, incredibilmente intensa e commovente, è la prova tangibile che il riservato Aaron, nonostante tutto, ama davvero ciò che fa, che sia in studio o sul palco. In apertura l’opener del nuovo album, Kneel Till Doomsday: campane a morto, allegria a palate come di consueto, e via, si parte. La labile acustica dei Magazzini Generali fornisce il pretesto per qualche lamentela, dato che qualcuna delle mille vibrazioni che caratterizzano i brani della band inglese va senz’altro persa. Tuttavia, almeno nelle prime file, si riesce almeno ad apprezzare un gradito ritorno: quello delle ampie e suggestive parti di violino, qui affidate al giovane Shaun MacGowan, che si erano un po’ spente negli album più recenti. Inizia il viaggio a ritroso nel tempo. Like Gods Of The Sun dà il titolo all’album omonimo, il quarto in studio dei My Dying Bride e uno dei più controversi, per via dei toni più morbidi e soffusi rispetto ai predecessori. Il plauso fu invece universale per The Angel And The Dark River, da cui è tratta la successiva From Darkest Skies, un gioiello di viscerale death-doom, seguito da una cinquina da sincope: l’oscura e potente To Remain Tombless; la tragedia in musica del capolavoro Turn Loose The Swans; poi due episodi particolarmente “sperimentali” nella loro discografia, My Body A Funeral, e il disorientamento e la destrutturazione esistenziale di The Wreckage Of My Flesh; e la meravigliosa She Is The Dark, apoteosi di quella bomboniera di tulle nero e visioni ossianiche che è il mondo dei My Dying Bride. Ritorno al presente con la drammatica The Poorest Waltz, da A Map Of All Our Failures. L’arcana melodia, ricamata da chitarre e tastiere, della leggendaria The Cry Of Mankind parrebbe essere il culmine del concerto, sembra quasi che corpi, teste e chiome ondeggianti debbano esplodere da un momento all’altro sull’onda delle potenti e cupe emozioni che là sotto si gonfiano, si espandono, si fanno intollerabili. Ma no, c’è ancora spazio per Like A Perpetual Funeral e un’onirica The Dreadful Hours.
Che dire? Benedetta la botta di gelo che, all’aperto, riporta alla realtà, alla concretezza, a tutto ciò che è al di fuori del reame mitico del sogno e dell’immaginazione, nel quale altrimenti si rischierebbe di rimanere intrappolati. Macabra e funerea? Sicuramente. Morente? Su questo sorge spontaneo più di un dubbio, sia perché con questa fantomatica Sposa più di uno dei presenti convolerebbe volentieri a giuste nozze, sia perché è difficile sentirsi più vivi che in momenti come questi, con l’adrenalina che scorre a mille.
SETLIST:
Kneel Till Doomsday Like Gods Of The Sun From Darkest Skies To Remain Tombless Turn Loose The Swans My Body, A Funeral The Wreckage Of My Flesh She Is The Dark The Poorest Waltz The Cry Of Mankind Like A Perpetual Funeral The Dreadful Hours
Articolo del
15/12/2012 -
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