L’apocalittico nubifragio della mattina rallenta l’intera giornata, così arriviamo in ritardo al Qube, storica discoteca di Portonaccio, tendenzialmente aperta dalle matinée per i pischelli in fuga dalla scuola, all’alba del giorno dopo per i nottambuli di tutte le risme in fuga dal lavoro – che non c’è – del giorno dopo. Quindi abbiamo colpevolmente perso i live di Argine e Solar Lodge.
Siamo qui per il trentennale di Death In June, storica sigla dell’oscura leggenda del folk apocalittico, che dai legami con David Tibet, John Balance, Patrick Leagas O’Kill, Tony Wakeford e Boyd Rice e – inizialmente – addirittura Stewart Home, si è ridotta nell’ultimo quindicennio all’isolazionismo da misantropo – autoconfinatosi in Australia – di Douglas Pearce (spesso Doug P.), fondatore di Death In June e da anni unico, malinconico, menestrello acustico di un repertorio infinito di lavori, che iniziò con il formidabile Nada! (NER, 1985, ora rieditato in CD Nada Plus, con l’inclusione di nuovi brani). La location non sembra delle più adatte: è la Sala C del Qube, con al centro una gigantesca, penzolante, palla da discoteca anni’80, svariate colonne quadrangolari, soppalchi popolati di darkettoni ambosessi overaged e non solo. Soprattutto un insistente rumore di fondo di potentissimi ventilatori, che affibbiano un’inadeguata base industrial all’intera nottata, in contrasto con l’attitudine da dark folk-singer di DIJ! Inaspettatamente siamo in tanti: ricordavamo performance di DIJ al Uonna Club di inizi anni ’90 e all’Alpheus di un decennio dopo, con palchi praticamente bui e al massimo 150 persone. L’orda nera che si accalca è assai differente da quella protagonista del sabato pomeriggio precedente, intorno a Piazza San Giovanni. Qui è molto intergenerazionale – addirittura over-50 – porta le solite magliette Bauhaus, Joy Division e appunto DIJ, si perde un po’ tra il tradizionale pubblico di Radio Rock (organizzatrice della serata insieme con Guido Bellachioma); quindi solo uno sparuto gruppetto di più giovani uomini e donne indossa neri cappottoni e truce mimetica dell’esercito, con sopra cuciti i feticisti simboli DIJ: il Totenkompf – il prussiano teschio sogghignante, tristemente utilizzato anche dai nazisti e che tante critiche ha attirato su Douglas P. – e il guanto borchiato che stringe una frusta; simboli che sono appesi anche sugli strumenti, insieme con una più mite bandiera arcobaleno del movimento omosessuale di cui Doug è parte.
Siamo poco oltre le 23 e un accigliato Douglas P., con i classici scuri occhiali da vista, sale sul palco per posizionare l’asta del microfono alla giusta altezza della sua ragguardevole statura e soprattutto per pulire nervosamente il microfono con un fazzolettino. Gli anni sono passati e Doug è visibilmente imbolsito, nella solita mimetica e maglietta nera con Totenkopf; in pochi sembrano riconoscerlo, per lo più solo dalle prime file. Alle 23,30 DIJ salgono sul palco in tenuta live, tra le urla del pubblico: Douglas P. in giaccone e tradizionale maschera, ambedue bianchi. John Murphy è alle sue spalle in tuta bianca, con un’altra maschera sul volto, rimane in piedi dietro alle percussioni. Parte l’intro rumorista e quindi le potenti percussioni marziali e tribali di Till The Living Flesh Is Burned, militaresco tributo ai soldati morti in guerra. Dopo un quarto d’ora di questo assalto sonoro iniziale, tolte le maschere, Doug indossa la chitarra acustica a dodici corde di ordinanza e inizia una sequela piuttosto monocorde – e a volte anche sbrigativa – di pezzi, con il fido John Murphy che tiene potentemente il ritmo: forse anche troppo, considerando che Douglas P. si lamenta spesso della voce, tenuta troppo in sottofondo, quindi anche del suono della chitarra. Doug ci pare imbrigliato sotto quello scomodo e orribile giaccone bianco. Il pubblico stempera gli applausi, così Doug domanda quale pezzo si vuole sentire stasera: a gran voce parte All Pigs Must Die, feroce atto di accusa contro l’antico sodale David Tibet, ora tornato al cristianesimo delle origini; ma anche questa versione sembra perdersi nel caos di fondo, che accompagna questa performance. Rimaniamo lo stesso intrigati dalla riproposizione di capolavori come To Drown A Rose e (Behind The Rose) Fields Of Rape (seppure il confronto con il controcanto di Tibet al Uonna Club è impari!), quindi lo splendido frammento Hullo Angel e She Said Destroy, con Little Black Angel, che arrivano probabilmente troppo tardi. Il vero concerto sono i quattro pezzi del bis, in cui Douglas P. ritorna alla carica, finalmente senza il pastrano bianco: da But, What Ends When The Symbols Shatter? si arriva a Heaven Street e soprattutto alle percussioni e ai nastri di C'est un rêve, dove i sempre contestati versi interrogativi su Où est Klaus Barbie, si alternano con Où est Kaddafi e Où est Bin Ladin: difficile siano dans le coeur noir, anche se Liberté C'est Un Rêve. Complessivamente rimaniamo interdetti. Seppur i nostri ascolti si erano fermati ai gloriosi vinili dei primi anni ’90 di DIJ, sapevamo del vicolo cieco musicale nel quale Doug sembra essersi volutamente condannato: un misto di nera rabbia contro il mondo e la sua mai soddisfacente pulsione di morte, fedele al suo motto, It is the Plague of Our Age, that We Fight in Isolation. Abbiamo sempre guardato con un misto di diffidenza e attrazione per le oscure pulsioni esoteriche e la simbologia runica delle sue produzioni, rifiutando le posture militaresche, che sono comunque state ridotte anche dallo stesso Douglas P. Ci è sembrato di ritrovarlo meno ombroso del previsto, ma forse ancora più stanco e sicuramente in crisi creativa, oltre che di tensione live, seppure John Murphy faccia del suo meglio con le percussioni, per riempire il vuoto sonoro che si crea sul palco. Eppure alcuni, rari, passaggi della voce di Doug ci ricordano la poesia malinconica, disperata e sepolcrale delle lontane trombe e misteriose melodie degli inizi. Forse, semplicemente, rimpiangiamo il furore nichilistico e iconoclasta dei concerti praticamente al buio, di quando avevamo vent’anni. Torniamo verso casa mentre dall’esterno arriva nitido, perfetto e meraviglioso il suono di Blue Monday dei New Order, classico hit da notte dark e new wave, anche per i ventenni di oggi.
SETLIST:
1) Intro 2) Till The Living Flesh Is Burned 3) Ku Ku Ku ... 4) The Honour of Silence 5) Omen-Filled Season 6) Peaceful Snow 7) Leper Lord 8) Luther's Army 9) All Pigs Must Die 10) To Drown a Rose 11) (Behind the Rose) Fields of Rape 12) A Wolf Rose 13) Symbols of the Sun 14) Hollows of Devotion 15) Death Is the Martyr Of Beauty 16) Good Morning Sun 17) Hullo Angel 18) Kameradshaft 19) Leopard Flowers 20) Giddy Giddy Carousel 21) Leper Lord (Bis) 22) The Maverick Chamber 23) Rose Clouds of Holocaust 24) The Death of the West 25) She Said Destroy 26) Little Black Angel 27) Fall Apart
ENCORE:
28) But, What Ends When the Symbols Shatter? 29) Runes and Men 30) Heaven Street 31) C'est Un Rêve
Articolo del
25/10/2011 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|