|
Terza puntata della serie di interviste ispirate dal libro di Graham Jones Last Shop Standing – Whatever Happened To Record Shops? - vedi RECENSIONE - sulle condizioni in cui versano le rivendite di dischi che operano al di fuori delle grandi catene.
Intervista rilasciata da Pierluigi di Soul Food (Roma)
1. Da quanto tempo esiste il negozio?
P: Il negozio esiste dal 2002 (ma noi siamo in giro da molti anni).
2. Quante persone ci lavorano?
P: Due.
3. Com’è nata l’idea di aprire un negozio di dischi?
P: Siamo fondamentalmente degli appassionati di musica. Io ho cominciato facendo fanzine dal 1984. Poi ho scritto su “Mucchio Selvaggio”, “Rockerilla”, “Velvet”, “Rumore”, “Blow Up”, ecc., e lavorato in altre strutture (Flying Records a Napoli; ho fondato la distribuzione Helter Skelter nel ’90, ecc.). Soul Food nasce dall’esperienza di Hate Records (prima fanzine, dal ’93, e poi etichetta, mail order e distribuzione all’ingrosso, nati nel ’95), ed è stata un’evoluzione naturale.
4. I rapporti con le case discografiche? Nel libro, Jones mette in evidenza che le major favoriscono le grandi catene (gli ipermercati) ai danni dei “pesci piccoli”, completamente trascurati. Confermate o smentite la sua asserzione?
P: Le major hanno sempre sfruttato il mondo indie. Le etichette piccole sono sempre state trattate come fossero dei loro talent scout, e purtroppo stampa e musicisti le hanno sempre appoggiate. Per quanto riguarda la vendita e distribuzione, le multinazionali fanno il proprio gioco, tagliando il più possibile le spese e cercando di concentrare la loro rete distributiva in meno posti possibile. Fanno business, in modo triste e squallido come si usa oggi. Comprensibilissimo. Fanno il loro mestiere da venditori di merce come qualsiasi altra struttura commerciale. Il problema è la gente, divenuta triste e squallida come il mondo che la circonda, apaticamente contenta di poter comprare musica senza il benché minimo contatto umano, e senza ascoltare chicchessia che la consigli. E questa attitudine è probabilmente figlia del freddo approccio che si ha con Internet...
5. Veniamo agli acquirenti di dischi: nel vostro negozio entrano più clienti “occasionali” o abituali? Sui guadagni incidono di più le spese dei primi o dei secondi?
P: La clientela base è quella dei fedelissimi, ahimè di una certa età, ma stando in una strada del centro, godiamo anche del passaggio occasionale di stranieri e turisti, anche se con le vendite occasionali saremmo già morti da un pezzo... Bisogna dire che oltre ai fedelissimi “locali” riceviamo spesso visite da fuori Roma, clienti che passano appositamente a trovarci quando sono in città, o gente che ci conosce anche solo come etichetta e/o mail order.
6. Età media dei clienti? È vero che gli adolescenti si accontentano di file scaricati dalla Rete?
P: L’età è abbastanza alta. I giovani non contemplano l’acquisto della musica: preferiscono spendere i soldi per alcol e droghe, e magari per andare a un concerto. Internet ha dato la possibilità di avere la musica gratis, e negli anni si è persa l’abitudine a comprarla. Più che comprensibile. Quello che proprio non capisco è il lato feticista... La bellezza di possedere un disco o di qualsiasi oggetto “bello” è un valore per molti, non solo per gli esteti, un modo come tanti di godere delle bellezze della vita, e nel contempo un nostro punto di forza. Proprio non capisco come si fa a scaricare dischetti di plastica tonda anonimi e asserire di “possedere” quel disco! Su un Cd che salta e si smagnetizza in un nonnulla... Il massimo della tristezza! Capirei se Internet fosse usato per ascoltare semplicemente musica, come una volta le radio, ma scaricare proprio no, sfugge a ogni mia comprensione. Voglio dire: se ascolti la musica dal computer con i dischetti fatti in casa, che differenza fa mettere su il Cd scaricato, o riconnettersi ad Internet per ascoltarlo?
7. Scelta dei titoli da tenere in negozio e dei generi musicali trattati: è influenzata dai vostri gusti personali? Dalle recensioni di testate specializzate (quali?)? Prendete in considerazione le hit-parade?
P: Secondo me, ogni negozio ha, o dovrebbe avere, la personalità di chi lo gestisce. Nulla di più triste di un negozio di dischi impersonale ed anonimo! Certo che le scelte musicali del negozio sono opera nostra. Abbiamo sempre mantenuto una linea attitudinale in cui crediamo: mai scesi a compromessi con classifiche e trend. Oggi è più difficile per noi che detestiamo le registrazioni digitali e il suono che ne deriva. Il panorama musicale attuale è davvero deprimente, e questa, a mio modo di vedere, è una tendenza che si ripete da metà/fine anni Novanta. Non apprezzando appieno quasi nulla, vien da se che (ahimè) dobbiamo adeguarci a quanto viene proposto da musicisti ed etichette contemporanee. Per quanto riguarda i giornali, abbiamo notato che solo alcune testate aiutano le vendite: quelle che si rivolgono a un pubblico più adulto e meno fighetto; infatti, se “Blow Up” parla benissimo di pinco pallino, stai sicuro che si scatenerà un download selvaggio, ma vendite zero...
8. Quali dischi avete venduto di più negli ultimi mesi?
P: Bah! Mi sa che noi non facciamo molto testo. Dopo la notizia della sua prematura morte, abbiamo tristemente venduto molti dischi del compianto Jay Reatard...
9. Le richieste più stravaganti ricevute?
P: Non saprei. Rimango abbastanza annichilito davanti ai beceri collezionisti che confessano di acquistare vinili senza ascoltarli. Anzi, c’era un tipo che andava fiero di possedere quasi solo dischi ancora sigillati! Gente che dovrebbe correre da un medico!
10. Avventori bizzarri?
P: Vedi sopra...
11. Il disco, o i dischi, di cui mai avreste sperato di sbarazzarvi, che tra l’altro siete riusciti a vendere a un prezzo folle?
P: Siamo molto attenti ai prezzi, ci teniamo molto a tenerli più bassi possibile e per questo cerchiamo di comprare tutto alla fonte, come ho sempre fatto da buon figlio della cultura d.i.y. (“do it yourself”, N.d.R.) degli anni Ottanta. Trattando prevalentemente indies, siamo pieni di dischi sconosciuti, ma avendo poco spazio cerchiamo di comprare solo cose belle e/o significative, quindi non mi vengono in mente dischi difficili da vendere. In realtà, tutto e nulla. È la gente che non conosce molto, e si sofferma sempre sui soliti nomi e sui soliti dischi. In questi ultimi anni stiamo assistendo al dilagare delle enciclopedie, e, soprattutto, delle classifiche e dei libri-fuffa con i 500 o 1000 dischi “indispensabili”, per cui tutti chiedono le stesse cose e vogliono davvero solo quelle. Non c’è più voglia di scoprire, di andare a fondo su qualcosa che viene ritenuta valida; di ragionare col proprio cervello, dimenticando che la musica è fondamentalmente una questione di gusti personali e ha molto poco di obiettivo. Ma sto divagando...
12. Internet: quanto ha inciso sui ricavi del negozio? Il Web va demonizzato? Lo utilizzate per reperire dischi, anche per le vostre collezioni personali? Vendete dischi on line?
P: A me Internet fa schifo. Anzi, fa davvero cagare! Rende il mondo piatto, superficiale e omologato. Un modo di tenere tutti sotto controllo facendogli credere di avere in mano un’arma di libertà. Con Internet si è debellato quello che ha fatto paura per anni, anzi per secoli, ovvero l’individualismo, i cani sciolti. Oggi se non sei omologato non conti. Io sono un’individualista e un anticonformista, nonché un “cane sciolto”, che si deprime quotidianamente a vedere quest’appiattimento dei cervelli e della personalità umana. Penso proprio che col tempo se ne accorgeranno tutti. Tornando a noi: oggi il commercio asettico si basa su e-Bay, Amazon e Internet, e in questo c’è anche un aspetto positivo, non lo metto in dubbio. Ma tante fregature sono dietro l’angolo. Ad esempio, per quanto riguarda il collezionismo, moltissima gente acquista su e-Bay e prende fregature in continuazione, con dischi spacciati per originali (ovviamente non lo sono), roba venduta come “perfetta” che non è buona nemmeno per essere riciclata come frisbee. Per non parlare di come è brutto e freddo l’acquisto on line... Bisognerebbe mobilitare sempre di più le coscienze sul fatto che continuando di questo passo i negozi di dischi spariranno, e con essi finirà quello che per un appassionato di musica ritengo essere il maggior piacere della vita: scartabellare negli scaffali, toccare i vinili, eccitarsi al ritrovamento di un album tanto voluto, ecc.
13. Ha senso concepire ancora un negozio di dischi come spazio di scambio culturale?
P: Che nostalgia per quei negozi degli anni Settanta e Ottanta! Oggi la gente entra per cercare un determinato titolo, non vuole sentirti parlare; ti guarda dall’alto in basso, facendoti anche pesare il fatto di averti scelto per i suoi acquisti invece di utilizzare la Rete. Con la maggior parte dei compratori non c’è quasi nessun rapporto, altro che scambio culturale!
14. Secondo Jones a sopravvivere saranno le rivendite in grado di adattarsi ai tempi che cambiano. Portando esempi concreti, l’autore intravede uno spiraglio di luce nella scelta di specializzarsi in determinati generi musicali, di ampliare la gamma di prodotti esposti senza snaturare il negozio (ad esempio, con uno stock di strumenti musicali), di sfruttare le potenzialità di Internet per il commercio on line. Visione semplicistica? Soluzioni troppo onerose?
P: Sicuramente bisogna sapersi distinguere per restare a galla. Ma, in linea con i tempi e gli altri settori commerciali, oggi avere un negozio di dischi sembra essere una scelta d’élite, non più la naturale evoluzione di passione e competenza. Oggi ci vogliono i soldi, e bisogna saper leccare il sedere... Voglio dire: fra quelli che conosco, la maggior parte dei negozianti nati nell’ultimo decennio o sono “figli di papà” in grado di sopperire ai costi di gestione e alle mancate vendite, o sono collegati a una branchia di potere (un distributore ad esempio) che magari li rifornisce in conto vendita. Diciamo che il futuro lo vedo davvero nero per i negozi. Se dovesse continuare così, la tipica competenza del negozietto fatto di appassionati sparirà quanto prima, e anche queste strutture saranno omologate al megastore, solo più in piccolo... È successo così anche con etichette e distributori: negli anni Ottanta c’erano un’etica, una filosofia d.i.y., una diversità di intenti e di proposte per gli indipendenti, ma nei Novanta tutto ciò si è trasformato, e le etichette e i distributori sono diventati uguali alle major, solo più in piccolo... E andando avanti è sempre peggio. Uno schifo.
15. Dieci titoli da portare su un’isola deserta?
P: Non riesco proprio a ragionare in questi termini. Odio le classifiche! Comunque, considerando che se dovessi partire per un’isola deserta (ammesso che sia possibile collegare il giradischi, visto che non ascolto Cd) risparmierei spazio con tutto il resto e porterei più di dieci vinili, eccoti una lista di venti titoli imprescindibili:
Velvet Underground, The Velvet Underground And Nico Bob Dylan, The Freewheelin’ Bob Dylan John Coltrane, My Favourite Things Fabrizio De André, Vol.3 Bo Diddley, primo album The Stooges, Raw Power Cramps, Songs The Lord Taught Us Gories, I Know You Fine… Rolling Stones, Between The Buttons Skip James, Devil Got My Woman The Pretty Things, S. F. Sorrow Television, Marquee Moon Sex Pistols, Never Mind The Bollocks Damned, Damned Damned Damned James Brown, Live At The Apollo The Kinks, Something Else John Lee Hooker, primo album Crime, San Francisco’s Doomed 13th Floor Elevators, The Psychedelic Sounds Of Ramones, primo album
Soul Food Via San Giovanni in Laterano 192/194 00184 Roma 06/70452025 http://www.haterecords.com
GIA' PUBBLICATE:
Intervista "Last Shop Standing" #1: Hellnation (Roma)
Intervista "Last Shop Standing" #2: Rock Bottom (Firenze)
Articolo del
26/02/2010 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|