Daniela Giombini una giovanissima giornalista musicale negli anni ‘80 decide di provare ad organizzare concerti per gruppi internazionali. La cosa, iniziata quasi per gioco ma spinta da una grande passione, procede bene e si concretizza in una vera professione. Dopo nemmeno due anni le viene proposto di organizzare il primo tour italiano di due esordienti band americane provenienti dalla zona di Seattle. Una delle due si chiama Nirvana, è il 1989.
Daniela, sei stata una delle prime donne booking agent nel mondo della musica in Italia. Cosa ti ha spinto a intraprendere questa carriera? Mi affascinava l’idea di fare un mestiere considerato “maschile”. Un’amica era regista, e trovavo stimolante l’idea di lavorare in un ambiente quasi completamente maschile. In quel periodo mi sentivo un po’ un maschio nel corpo di una donna: avevo più amici uomini che donne, ascoltavo musica considerata ‘maschile’ e frequentavo ambienti in cui il pubblico era prevalentemente composto da uomini. Per me il live era la prova del nove per capire se una band valesse davvero. Spesso, però, nessuno voleva organizzare concerti per i gruppi medio-piccoli che piacevano a me. Così una grande passione è diventata una professione.
Era un ambiente ostile per le donne, viste sempre e solo come groupie nel mondo musicale? Sì, assolutamente. La cosa più assurda è che nei paesi apparentemente più emancipati, come l’Inghilterra, la mentalità era ancora più retrograda. Quando andavamo in giro per agenzie a Londra, molti pensavano che fossi la segretaria del mio socio. Una volta una prestigiosa rivista inglese del settore mi chiese un’intervista: inviai tutto, risposte e foto. Ma alla pubblicazione apparve solo il mio socio, Antonello Florio. Per fortuna, nel resto d’Europa la situazione era un po’ diversa: in Germania c’era un’agenzia gestita da due donne, in Olanda una tour manager donna, una anche in Inghilterra e in Danimarca e Grecia c’erano coppie in cui anche la fidanzata faceva l’agente. Ma la regola era che le donne erano le fidanzate di…, e venivano poco prese sul serio. Essendo presidente e amministratrice della Subway Productions, almeno non mi scambiavano per la groupie carina che girava con le band. Col tempo ho capito che, per ottenere rispetto dagli uomini, dovevo avere una carica superiore alla loro e in quel caso si zittivano. Mi sarebbe piaciuto, allora, fondare un’agenzia con un’altra donna, ma non ne trovavo una sufficientemente determinata, e soprattutto nessuna i cui genitori avrebbero accettato che facesse un lavoro in cui si viaggiava spesso e si aveva a che fare quasi esclusivamente con uomini. Vivevamo in una società patriarcale, in cui spesso le ragazze non venivano nemmeno mandate ai concerti. Personalmente, avendo perso mio padre, godevo di un minimo di libertà in più: era stato lui a trasmettermi lo spirito imprenditoriale.
La tua band del cuore? E quando il punk ti ha conquistata? Gli Stranglers, senza dubbio. Li ho amati fino a quando Hugh Cornwell, lo storico cantante, ha lasciato la band. Li rividi al Cremona Rock con il nuovo cantante, ma non mi piacquero più e smisi di seguirli. Avevo una vera passione adolescenziale per J.J. Burnel, il bassista. Musicalmente mi sono formata con il punk rock degli anni Ottanta, ma me ne sono allontanata proprio per la misoginia diffusa in certi ambienti punk romani, che oggi definiremmo bullismo.
Perché hai aspettato così tanto per realizzare un docufilm su Kurt Cobain? Sentivo che era arrivato il momento di raccontare quella storia, prima che la memoria collettiva di quel periodo svanisse. Ci sono tantissimi fan dei Nirvana, spesso molto giovani e un po’ feticisti, che all’epoca erano troppo piccoli. Volevo offrire loro un racconto autentico, con i veri protagonisti di quei concerti, così come li abbiamo vissuti noi.
Cosa ti ha lasciato, umanamente, l’incontro con Kurt? Kurt era una persona timida, introversa e generosa. Purtroppo il successo, l’ansia da prestazione e le droghe non l’hanno aiutato. Mi ha lasciato tanti ricordi che porto ancora con me, e la consapevolezza che i soldi non danno la felicità.
Vorresti che il documentario uscisse al cinema con una regolare programmazione? Essendo un documentario indipendente, abbiamo scelto l’auto distribuzione: proiezioni in tutta Italia, tutte accompagnate da incontri con il pubblico. In questo modo abbiamo mantenuto il pieno controllo sul progetto, che è comunque costato molto al produttore, Tino Franco che purtroppo due anni fa ci ha lasciati. Siamo aperti anche a proiezioni su piattaforme, se ci fosse richiesta, ma per quanto riguarda la distribuzione, abbiamo fatto tutto in autonomia.
Ti occupi ancora di musica. Farai un’altra esperienza nel cinema? No, il cinema è stata una parentesi. La prima, l’unica e per sempre, come dicevano i Sisters of Mercy. Adesso mi occupo attivamente di musica con la fanzine che curo con passione insieme a Dario Calfapietra. Visto che abbiamo momentaneamente sospeso il tour delle proiezioni — che riprenderà a metà settembre — ci stiamo dedicando al nuovo numero di Tribal Cabaret, il n. 12.
Cosa ti spaventa del mondo di oggi? L’ingiustizia globale verso interi popoli, l’oligarchia dilagante e il crescente disinteresse delle nuove generazioni verso le passioni autentiche.
Articolo del
08/07/2025 -
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