I Dirtyfake hanno la cupezza del dark anni ottanta e la levigatezza delle sonorità anni novanta. Vivono gli strumenti musicali come prolungamenti del loro corpo, le melodie come vibrazioni degli organi vitali e le note come eritrociti impazziti, d’amore o dolore, non si sa. Una voce di somiglianza incredibile con quella di Brian Molko, seducente e mai banale, si contorna di chitarre forti e disordinate sin dalla prima canzone, come i pensieri che si affacciano nella nostra testa. Placebo, Pixies, ma soprattutto Radiohead hanno fatto scuola ai Dirtyfake e loro, di rimando, si mostrano alunni diligenti che hanno imparato gli insegnamenti e li mettono in pratica. Pioggia di piatti e rock duro (”Escape”), passando per distorsioni di reminescenza pixiniana (”Hollywould”), lasciano poi spazio a momenti più lenti in cui il timbro di voce si avvicina a quello di Morrissey (”On the Local Newspaper”). Una bella prova vocale accompagnata dal crescendo di sonorità, si spezza d’improvviso per lasciare spazio ad un canto dispiaciuto che sa di pioggia irlandese, di biciclette arrugginite e maglioni indossati con noncuranza, di paesaggi industriali e romantici, di Smiths e tristezza. ”See My Dreams” cambia lo scenario ripescando dai fondali dell’ alternative rock emozioni malinconiche, mescolate a qualcosa che ricorda un post-punk più aggressivo e chiude l’ep così come era cominciato; a questo punto è evidente che l’equilibrio tra rielaborazione e creazione di questa band è minato da qualche crepa, nonostante la passione e le buone intenzioni. La diligenza con cui questi musicisti romani danno vita alle canzoni, non basta per far fiorire completamente il proprio talento che rischia così di splendere di luce lunare che vive di riflessi non propri ma di grandi band e successi che hanno fatto la storia della musica. Capacità, tecnica e carattere, saranno evidenti quando i Dirtyfake si discosteranno, anche di poco dai loro miti musicali, dando vita così ad un sistema solare proprio e, forse, molto lucente.
Articolo del
15/07/2010 -
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