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Confesso che prima di incontrarlo per la prima volta, nel settembre del 2010, avevo solo una vaga idea di chi fosse Claudio Rocchi. O meglio: sapevo bene che era stato un’icona dei primi anni Settanta durante l’epoca Hippie, ma per motivi anche generazionali di lui conoscevo sì e no, solo tre o quattro canzoni, non avendo mai trovato il modo, il tempo e, forse, la voglia di ascoltare in toto la sua produzione artistica. Pertanto, munito di qualche pregiudizio, mi aspettavo di trovarmi di fronte il più tipico dei “reduci”, con tutte le fisime e le recriminazioni della categoria; e invece, con mio sommo stupore, Claudio Rocchi si rivelò essere qualcosa di più e di diverso. Mi trovai di fronte un uomo che all’età di 60 anni era ancora pieno di vita; un vulcano di idee e di suggestioni che non si faceva pregare per raccontarti una valanga di faccende e teorie vecchie e nuove, tutte interessanti e stimolanti. Da poco, fra l’altro, aveva anche ripreso a fare musica, con la collaborazione, dapprima, degli Effervescent Elephants, e, in seguito, di Gianni Maroccolo (risultata in un album, Vdb23/ nulla è andato perso che nel momento in cui scrivo è in fase di pubblicazione). Dopo quel primo incontro non potei fare a meno di procurarmi tutta la discografia di Claudio Rocchi: i primi LP di cantautorato prog (commistione alquanto originale per i primi anni Settanta), le sperimentazioni con gli Aktuala e Paolo Tofani (Area), fino alle ultime uscite per la Cramps in odore di New Wave prima del brusco stop causato da problemi personali e di un lungo periodo passato in Nepal ad approfondire le religioni orientali. Dopo “aver studiato”, gli chiesi di rivederci una seconda volta nel febbraio 2011, con l’idea di “mixare” le due interviste per un lungo articolo retrospettivo da pubblicare sul mensile Musica Leggera; purtroppo, però, la cosa non andò in porto a causa della chiusura prematura, di lì a poco, della rivista diretta da Maurizio Becker.
Claudio, come tutti sanno, se n’è andato - anche lui assai prematuramente - il 18 giugno 2013, a causa di una malattia degenerativa che nel periodo in cui ci conoscemmo era già visibile ma che lui cercava di minimizzare (cosa che, devo dire, gli riusciva anche molto bene: non ho infatti avuto mai il minimo sospetto che si trattasse di un male così grave). Quel “mix” di interviste che non ho potuto realizzare allora, mi sembra opportuno proporlo adesso, in un momento in cui si sta tornando a parlare di Claudio Rocchi e in cui si sta – finalmente – analizzando il suo impatto e la sua importanza (che sono notevoli) per l’evoluzione del pop-rock italiano dagli anni Settanta fino ai nostri giorni. Si è trattato di condensare quattro-cinque ore di chiacchierate in cui Claudio si è raccontato con candore, e in cui nel contempo ha descritto la scena italiana pionieristica in cui si trovò a operare: una sorta di mini-testamento autobiografico, in cui è riassunta (quasi) tutta una vita e una carriera. Cominciamo con ordine, però, Dall'inizio, quindi, e da quei (tanti) figli della Milano borghese degli anni Sessanta che vennero travolti da un ciclone chiamato “Beatlemania”.
Tutti hanno in mente il Claudio Rocchi polistrumentista. Ma il tuo primo strumento qual è stato?
Be’, io nasco come bassista. E devo dare credito ai Beatles, perché mi è capitato di vedere un programma televisivo in bianco e nero su Raiuno, che si chiamava Tv7, settimanale di informazione: i Beatles al London Pavillion, forse nel ’63, loro vestiti in piena Beatlemania, con le screaming girls, una registrazione dal vivo del concerto, loro vestiti di lustrini. Di solito avevano a quei tempi gli abitini neri con le cravattine, qui invece erano vestiti con i completini tutti uguali di lamè, shining totale… E soprattutto mi hanno colpito tutte queste ragazzette. Io quell’anno avevo 12 anni, sono del ’51. Ho visto queste ragazzine adolescenti, piangenti, adoranti, e (come credo un buon 75 – 80 per cento dei musicisti che fanno pop-rock) una delle reali vere motivazioni, quando si inizia molto giovani, è di usare lo strumento, la scrittura, il linguaggio e il performing come strumento seduttivo. Poi: “caspita, guarda ‘sti ragazzi!” Una platea di ragazze adoranti, fanno musica, sono ricchi, famosi, hanno le ragazze…. Lì ho messo un seme di desiderio, tipo: da grande voglio fare il musicista.
Questa è stata la scintilla. Ma poi come hai imparato a suonare?
Io sono completamente autodidatta. Mio padre - che è stata una persona straordinaria nella mia vita - mi ha sempre assecondato, incoraggiato... Lui, imprenditore, avrebbe voluto essere un artista. Mentre il figlio maggiore ha fatto la carriera rigorosa da bocconiano, manager e tutto, io ho fatto l’artista nella vita. E ho riempito a mio padre, finché c’è stato, la sua frustrazione di non essere riuscito ad essere un artista. Mio padre mi ha regalato una chitarra, dopo che aveva visto il mio entusiasmo per questi Beatles. E ho cominciato a strimpellare la chitarra. Poco dopo ho detto che mi sarebbe piaciuto avere anche il pianoforte. E lui mi ha affittato un pianoforte verticale. E ho cominciato così, con i manuali per gli accordi. Poco più avanti, quando già avevo iniziato, sapevo suonare e già canticchiavo, sono entrato da cantante bassista negli Sconosciuti, un gruppetto studentesco, e sono andato a lezione di canto da un’anziana signora milanese.
Con gli Sconosciuti avete realizzato dei dischi?
No, mai. Però abbiamo vinto un concorso nazionale studentesco al Palalido di Milano. In giuria c’erano Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik e Shel Shapiro dei Rokes. Facevamo i pezzi dei Byrds. In finale ho fatto Spanish Harlem Incident di Dylan, in inglese, suonando il basso e cantando, con la frangetta, già un po’ beat. Hanno premiato il nostro gruppo, ma poi in realtà hanno premiato me. Come premio di questa finale nazionale ho avuto un provino alla RCA di Roma. Mi hanno pagato il viaggio e sono andato in studio sulla Tiburtina. Avevano un’etichetta che si chiamava IT.
L’etichetta di Vincenzo Micocci, che poi ha lanciato Venditti e De Gregori.
Sì. Mi hanno mandato in studio con la chitarra e mi hanno detto: fai quello che vuoi… E io, che già ero completamente di fuori come atteggiamento e mi sentivo non so chi già (delirio di onnipotenza) ho improvvisato a ruota libera come poi più tardi avrei fatto, un po’ più da grande qualche anno dopo, nel mio Volo Magico su un pezzo che si chiamava Giusto amore, che era completamente improvvisato. Io scrivevo poesie, mi piaceva molto…. E avevo visto Lenny Bruce, ero molto affascinato, era evidentemente un geniale improvvisatore. Quindi, ho improvvisato in quella maniera. Non ho lasciato registrato su nastro nessuna canzone che avesse una struttura compiuta, un ponte, una strofa, un ritornello. Non è uscito nulla. Mi devono aver preso per pazzo, perché non avevo le caratteristiche di un cantante, non avevo le caratteristiche di nulla… Cioè, ero una specie dio pazzoide improvvisatore sconnesso.
Com’è che il tuo gruppo non era venuto con te?
Perché hanno invitato me, non il gruppo. Che poi nel gruppo io facevo il cantante, ero il frontman… Così è andata. Però era la prima volta che ho messo piede in sala d’incisione per una cosa mia. Ovviamente ci sono rimasto… neanche troppo frustrato, perché il mio atteggiamento era: che imbecilli che non capiscono nulla! Mi sentivo way out dalla loro comprensione. Troppo avanti. Così è andata. Sarà stato il 1966 o 1967.
Al Palalido però ti eri agganciato con gli Stormy Six.
Mi ha visto cantare in quell’occasione uno degli Stormy Six che faceva il loro manager, Così poi un’altra volta, poco più avanti, che io da spettatore sono andato a vedere una serata al Voom Voom, un club milanese, degli Stormy Six, fui avvicinato da questo manager degli Stormy Six, Paolo Spadaccini, che mi propose di andare con loro a fare il bassista. Perché mi aveva visto in quella finale al Palalido e gli ero piaciuto. E io accettai. Loro avevano già inciso un paio di 45 giri con la Blue Bell Records. Avevano fatto una cover degli Small Faces, All Or Nothing: Oggi piango. E loro nell’ambito milanese erano noti, erano dei fighettini, cioè erano un po’ i giovani New Dada. I New Dada erano il gruppo più importante di Milano in quel periodo. E loro erano un po’ più giovani dei New Dada. Per cui era gratificante andare a suonare con loro. E lì abbiamo iniziato una stagione suonando parecchio. Suonavamo tutti i weekend, sempre. Loro avevano già un contratto discografico con la Blue Bell. Però poi non so cos’è successo, la Blue Bell ha chiuso, ha venduto il catalogo, non so che… E loro si sono ritrovati all’Ariston praticamente. Io ero il loro bassista, la Ariston ha proposto al gruppo di fare un album, e lì è iniziata la storia perché mi hanno notato come autore, mi hanno chiesto di lavorare come autore con loro.
Quindi hai lavorato anche per il settore edizioni dell’Ariston?
E ho avuto una grande fortuna. M’hanno fatto tradurre – come usava ai tempi, quando pubblicavano dischi in italiano di edizioni straniere – le canzoni dei Beatles, degli Stones, dei Creedence Clearwater… All’epoca era di regola, di norma di legge, pubblicare uno spartito con un testo italiano preciso in metrica: la versione italiana. Questo era il lavoro degli editori. E siccome la Ariston aveva le edizioni dei Creedence Clearwater Revival, io ho avuto la fortuna di scrivere tutti i testi italiani in italiano dei Creedence. Testi in metrica. Adattamenti. Se uno avesse voluto registrare una cover in italiano…
Doveva utilizzare la tua versione. Ma li ha mai fatti nessuno?
In italiano no. Però comunque, per ogni disco in inglese, in americano, venduto, a me arrivavano le royalties. Fantastico. E magari ti arrivano tuttora…?
Dei pezzi dei Creedence venduti in Italia. Certo, no? E io guardavo un ragazzo che era di pochi anni più grande di me, che lavorava alla EMI, e che faceva lo stesso lavoro con le canzoni dei Beatles: Felice Piccaredda. Piccaredda ha preso una vagonata di soldi solo perché traduceva gli spartiti e le canzoni dei Beatles. Incredibile.
Un lavoro da non crederci. Di quelli che oggi non esistono più. E poi c’è stato anche l'LP con gli Stormy Six, “Le idee di oggi per la musica di domani”, che uscì nel 1969.
Be’, forse registrato nel ’68.
Contiene i tuoi primi brani come autore.
La metà giusta. Abbiamo firmato tutto insieme, però per metà erano di Franco Fabbri e per metà miei.
“Sotto i portici di marmo” è tua.
Pensa che è l’unica di quell’album che suono ancora adesso in concerto. Quelle che canto io [nel disco] sono mie. Ramo, I tuoi occhi sono tristi e Sotto i portici di marmo.
Te e Fabbri lavoravate come Lennon e McCartney.
Bè non proprio, perché io firmavo i testi e lui le musiche. Anche perché allora non avevo ancora la qualifica di autore alla SIAE. 01 testi e 02 musica. Dovevo ancora avere la 02, avevo solo la 01.
Si sente però una tua cifra già in questi brani.
Sì, poi lì avevo scritto addirittura l’arrangiamento per un quartetto d’archi. Proprio scritto.
Come li ricordi questi primi pezzi?
Ramo ha coinvolto loro, [gli Stormy Six] che erano distantissimi da tutto ciò, in un pezzo all’indiana. Io suonavo il sitar, Antonio Zanuso il batterista suonava i tabla...
Li hai portati dalla tua parte…
Sì, almeno per quello che riguardava i pezzi miei. Ramo è un credito all’indianitudine via Beatles-Harrison, Byrds, Ravi Shankar… Poi io già mi interessavo di filosofia indiana, perché l’India era già un mondo... Ramo è un pezzo indiano. I tuoi occhi sono tristi, con un organo Hammond, era un credito di ispirazione a Brian Auger. Io avevo visto Brian Auger con Julie Driscoll e mi aveva molto affascinato l’Hammond. E Sotto i portici di marmo invece è un voce e chitarra struggente, con un arrangiamento di quartetto d’archi tristissimo… così almeno l’avevano definito. Poi alla fine, curiosamente, questo pezzo risultò alla fine del disco… quello messo lì per ultimo… “Manca un pezzo”…. “Chi ha un pezzo pronto?” “Io ho un pezzo pronto”… E’ risultato il pezzo migliore, cioè che era piaciuto di più a tutti. Ed è quello che mi è valso il contratto editoriale. Han detto: “Ah, tu hai scritto questo pezzo? Bravo, allora se vuoi puoi lavorare con noi alle edizioni”.
Per quanto riguarda il tuo incontro con l’India c’era stato anche lì lo zampino dei Beatles?
No, qui non c’entrano i Beatles, il sitar l’ho sentito grazie ai Byrds e a Roger McGuinn. Lui suonava sempre chitarre Rickenbacker e credo che fosse tipo testimonial della Rickenbacker… Io frequentavo un cineclub underground, si chiamava Milano Cinema – classicamente in una cantina – e andavo a vedere tutte le cose che arrivavano di underground, tipo Sunset di Andy Warhol che inquadrava un grattacielo con la camera fissa sul cavalletto per dodici ore, con il sole che pian piano girava… Insomma, tutte queste follie underground. E nel pacchetto di queste follie underground, un giorno ho visto una conferenza stampa di Roger McGuinn che presentava un pick-up della Rickenbacker applicabile su chitarre acustiche da elettrificare. E lui in quella conferenza l’aveva applicato a un sitar. Per cui era lì a far vedere come questo pick-up si potesse attaccare ovunque, anche su un sitar. E ho sentito il suono del sitar. Non l’avevo mai sentito, con gli accordi di risonanza, questo suono enorme… Mi ha veramente squarciato, tipo un’esperienza di percezione illuminante. E lì… un credito fondamentale di esperienza. E poi – io faccio casino con gli anni – ho finito il liceo nel 1969. Mi sarò iscritto all’università nel 70. Nel ’68 così, ho cominciato a leggere filosofie orientali quando andavo al liceo. Insomma, è un gran mischione fra influenze filosofiche, interessi filosofici e… l’India.
E la letteratura Beat?
Ah, sì, assolutamente. Mi ricordo un’antologia fondamentale, “I Beats”, a cura di Samuel Primm, con dentro Ferlinghetti, Corso, Kerouac, Ginsberg… E quindi, sì, certo. Ecco, il mio ottimo padre, a cui devo tutti i crediti per questa mia vita tra virgolette “artistica”, come regalo visto che mi piaceva molto leggere, mi ha portato a una libreria del centro sotto gli uffici suoi, presentandomi alla proprietaria, e aprendomi una scheda… sarei potuto andare lì e prendere libri a volontà. E io lì ho fatto tutti quei miei anni, i miei sedici-diciotto anni, proprio chiuso in casa… Quando non pensavo a suonare o a studiare, leggevo leggevo leggevo… E le mie letture favorite a quei tempi erano i romantici tedeschi, gli scapigliati milanesi, i beats americani e le filosofie indiane. Questo è il miscuglio di base.
Che poi hai incorporato anche nelle tue liriche.
Esatto.
Quindi in quel periodo hai fatto traduzioni ma anche l’autore per altri.
Ai tempi funzionava così: quando la discografia era viva, le grosse case discografiche avevano delle loro scuderie di autori, per fare i pezzi da dare ai loro cantanti. Ricordo che ai tempi ho fatto dei pezzi per dei complessini della Ariston, tipo Le Belve Dentro e la Nuova Idea. E anche per Giovanna, Anna Identici, Ornella Vanoni. Fausto Leali. Per Ornella Vanoni ho fatto una cover dei Genesis, White Mountaina che è diventata Il gioco senza età. Per Giovanna ho scritto il suo best-seller - credo - , Io volevo diventare, che è stato non so se Il disco per l’estate, che ha avuto un discreto successo. Era un pezzo mio anche musicale. E’ cofirmato con un altro autore che ha messo un pezzo della canzone, strutturalmente. Anche così succedeva: nella scuderia di autori uno aveva una bella strofa, poi c’era il dirigente delle edizioni che componeva una canzone pigliando la strofa di uno, il ritornello di un altro, il ponte di un terzo e il testo di un quarto, magari. Poi in certi casi bastavano due persone o una. Però ecco, era un pezzo mio, Io volevo diventare. Sempre in quel periodo ho tradotto Alan Taylor, un songwriter americano, per Gilda Giuliani, che in un suo album voleva avere un look da cantautrice come immagine, e allora ho tradotto un paio di pezzi di questo americano perché era di catalogo Ariston. Funzionava così, era completamente autarchico il regime: ognuno faceva le cose sue. E va be’, poi tutti i pezzi dei Creedence tradotti… Io ho un culto per John Fogerty. Semmai un giorno lo incontrassi nella vita, gli devo dar credito… Perché io ero molto giovane, e grazie ai diritti d’autore dei Creedence ho visto i miei primi soldi, proprio…
Avevi diciott’anni.
Sì, diciotto. Con gli Stormy Six soldi per la musica non li ho mai veramente visti. Sì, ci pagavamo la benzina, … magari gli strumenti… Magari. Forse neanche. No, io ho cominciato a vivere di musica dopo il mio primo album. Allora lì sì. Facevo le serate da solo con la chitarra. Di lusso… Ne facevo anche due a settimana, a volte anche tre, nel weekend. E per quei tempi guadagnavo un pacco di soldi…
(CONTINUA NELLA SECONDA PARTE)
Articolo del
22/11/2013 -
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