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(segue dalla 5a Parte)
All’inizio sembra solo un banale malanno, ma le prime diagnosi rivelano che si tratta di qualcosa di più serio, dovuto all’occlusione di un’arteria. Praticamente Bowie ha avuto un infarto. Il cantante viene trasportato e operato d’urgenza al Sankt Georg Hospital di Amburgo dove subisce un delicato intervento di angioplastica. E l’A Reality Tour si conclude qui, con la cancellazione di tutte le restanti date ancora in programma.
Bowie torna a casa (a New York) per la convalescenza, e da allora mantiene un bassissimo profilo. Esce a fare la spesa, accompagna la figlia a scuola e al massimo partecipa a qualche serata di gala, ma di realizzare il terzo capitolo della prospettata “trilogia newyorkese” con Tony Visconti non se ne parla più.
E durante questa prolungata assenza si verifica qualcosa di inaspettato: Bowie torna di moda. Se i Nineties - dominati da grunge, hip-hop, crossover, neopunk e brit-pop - e il primo lustro del millennio – in cui la fanno da padroni il folk e il rock delle “radici” e la brit-wave di Libertines, Franz Ferdinand e Interpol – con la filosofia bowiana avevano poco a che spartire, a partire dalla seconda metà del decennio si registra una progressiva svolta nel paradigma musicale dominante. Accantonati i precedenti revival visivamente casual se non dimessi, con le loro chitarrine e chitarrone, a poco a poco si rifà largo la voglia di sperimentare e di dare libero sfogo all’immaginazione. Dal bianco e nero si torna al colore. Il vecchio (o riciclato) cede il passo al nuovo: al “sound” ma anche alla “vision”. Dopo oltre quindici anni di inarrestabile declino di critica ma anche di pubblico, c’è nuovamente voglia di Bowie. E spuntano come funghi gruppi che di bowiano hanno molto, come i canadesi Arcade Fire e i newyorkesi Tv On The Radio, per citarne due che Bowie sponsorizza con il medesimo entusiasmo manifestato in passato per Lou Reed, Iggy Pop, The The, (ahinoi) gli Screaming Blue Messiahs e i Pixies. Due gruppi con i quali sviluppa anche delle collaborazioni: con i TVOTR prestando la voce su Province (un brano dall’album Return To Cookie Mountain del 2006), e con gli Arcade Fire partecipando a un loro concerto dell’8 febbraio 2005 trasmesso in tv che è anche la prima apparizione su un palco di Bowie dalla drammatica serata di Scheeßel. Il Bowie che esegue le sue Five Years, Life On Mars? e Wake Up della band canadese è quanto di più lontano possa esserci dallo Ziggy Stardust che fu: è un signore sulla sessantina vestito in modo conservatore, un po’ rigido, che esegue onestamente le canzoni della sua giovinezza. Di alieno ormai ha ben poco, tranne le caratteristiche iridi all’apparenza bicolori.
Dopo la lunga traversata nel deserto dei precedenti tre lustri, l’informazione stampata (e non) torna ad occuparsi di Bowie. Appaiono retrospettive, libri biografici, omaggi, tributi. Il precedentemente ignorato Heathen” viene finalmente celebrato come il “great lost masterpiece” di David Bowie. Iniziano a imporsi gruppi come gli inglesi Hot Chip, Ladytron e Klaxons, i canadesi Junior Boys e Holy Fuck, gli americani LCD Soundsystem e MGMT, che non mancano di riconoscere la fondamentale influenza del Duca Bianco sulla loro musica e, soprattutto, sul loro atteggiamento nei confronti della musica. Vengono ripubblicati in DVD L’uomo che cadde sulla Terra e anche Glass Spider Tour e su CD la versione rimasterizzata di Buddha Of Suburbia. Giovani cantanti come Joan As Police Woman, Duffy e Scarlett Johansson si dichiarano fan di Bowie fin dalla più tenera età e la Johansson arriva perfino a convincere il suo idolo a cantare due pezzi sul suo album d’esordio (Anywhere I Lay My Head, 2008). E perfino colui che era stato il più aspro critico di Bowie, Paul Weller, nel maggio 2008 confessa al mensile Mojo di essere da qualche tempo un “bowiano convertito” per poi aggiungere: “Ogni sera dopo aver registrato (l’ultimo album “22 Dreams”) tornavamo a Londra ascoltando “Ziggy Stardust” cinque o sei volte. “Low” comunque è uno dei miei dischi preferiti. Qualsiasi cosa io possa aver detto in passato su Bowie, “Low” è sempre stato una fissa fin da quando lo acquistai nel 1977”.
Nonostante questo ritorno di fiamma, Bowie si mantiene appartato - fatta eccezione per la partecipazione il 29 maggio 2006 al concerto londinese in onore del deceduto Syd Barrett dei Pink Floyd e il singolo estrattone Arnold Layne” / Comfortably Numb con la band di David Gilmour - e continua a dedicarsi principalmente alla sua legacy: escono tra il 2009 e il 2010 il live Santa Monica '72, più volte stampato in formato bootleg, tratto da un broadcast radiofonico, e le versioni deluxe di Space Oddity e Station To Station (quest’ultimo comprendente lo storico show tenuto il 23 marzo 1976 al Nassau Veteran's Memorial Coliseum di Uniondale, New York). A questo punto, però, Bowie scompare del tutto. Da “low” che era, il suo profilo scende fino allo zero totale, fatta eccezione per l’avvistamento alla prima del film Moon del figlio Duncan al festival Sundance nel 2010. Come Greta Garbo (“I just want them to leave me alone”) o come il suo idolo Scott Walker (“This is how you disappear...”) o magari, se proprio si vuol cercare un paragone, come il nostro Lucio Battisti. Con la differenza che ogni tanto Battisti un disco lo pubblicava, e le sue foto (invecchiato e ingrassato) di tanto in tanto facevano capolino sui giornali scandalistici. Di Bowie, invece, il nulla più completo, neanche più un salto al suo ristorante preferito di Manhattan. Si diffondono così le voci più incontrollate: Bowie è chiuso in casa attaccato a una bombola d’ossigeno, sta malissimo, è prossimo alla morte.
Tutto sbagliato, tutto falso. L’8 gennaio 2013, giorno del suo 66° compleanno, Bowie risorge: “Here I am, not quite dying”. E non è più “just for one day”. Piuttosto, “and the next day, and the next, and another day”. “As long as there's sun, as long as there's rain, as long as there's fire, as long as there's me, as long as there's you”.
[CONTINUA - MA CERTO CHE SI']
Articolo del
21/03/2013 -
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