E’ una musica che si potrebbe definire a cipolla, questa degli astigiani Noàis: non solo perché sotto la parvenza di accordi apparentemente essenziali si scopre una vasta gamma di colori folk, blues, country, e addirittura esotici, ma perché tutto qui ha un secondo livello di significato. A cominciare dal nome che si sono scelti Jacopo Perosino e soci: Noàis, traslitterazione paro paro di “No ice”, il riferimento è ai drink serviti lisci, senza ghiaccio, ovvero senza trucchi e senza inganni, in un modo che consente di apprezzarne meglio il sapore, gli ingredienti e la consistenza. Dietro la macellazione della lingua inglese, passata per lo spietato setaccio della storpiatura italianizzante e volutamente “provincializzante”, c’è in realtà una visione filosofica della vita. Parliamo, se si vuole, dell’artwork di copertina: apparente caos primordiale di valigie, strumenti musicali, libri, oggetti che sembrano essere saltati fuori di propria spontanea volontà da bauli e scatoloni dimenticati da anni in soffitta; in realtà più lo si osserva, più questo disordine non trasmette affatto spaesamento, ma al contrario un senso di intimità e di accoglienza simile a quello che ci riscaldava, seppur per un breve istante, rintanandoci nella nostra cameretta, nella nostra tana di adolescenti, il più delle volte in condizioni a dir poco post-atomiche, per la gioia di mamma. Parliamo, naturalmente, di musica: la tradizione popolana arraffa qualcosina da Johnny Cash, Bob Dylan, Simon And Garfunkel, il tutto senza perdere quella particolare vena menestrelliana che è tutta dei nostri cantautori. Le storie attingono dal folklore popolare nella prima parte (Hanno Ucciso Colapesce, storia di Nicola da Messina, che, narra la leggenda, si sacrificò per impedire alla sua Sicilia di sprofondare nel Mediterraneo, lui che era solo un umile pescatore, o Mary Jane, ode in salsa Irish alla prostituta massacrata da Jack lo Squartatore nel fiore dei suoi vent’anni) o dalla vita reale, concentrata nella seconda parte: dalle note lievi, solari e danzanti di Emmeraviglia alla pizzica di Colpa Di Maria, trascinante inno alla vita e al vivere senza barriere, agli umori più malinconici della conclusiva Sudato e Fragile, e soprattutto di Che Bella Giornata, in cui accordi sussurrati, leggeri e apparentemente luminosi schermano un testo disilluso e segnato dalla condanna a dover lasciar andare cose e persone che non fanno più parte della nostra vita. Infine, il concept, se così vogliamo chiamarlo, che è poi quello che dà il titolo all’album: Lanterne. La luce, vera costante di tutte le composizioni, squarcio che ci fa vedere ciò che prima avevamo ignorato prima ancora che strumento per orientarci nell’oscurità. Quella delle lanterne è una luce notturna, fioca, quasi fatata se si lascia correre la fantasia; e su un piano in cui la fantasia incrocia la realtà, proprio la lanterna può diventare oggetto magico, chiave di mondi e portale per altri universi.
Articolo del
17/04/2015 -
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