Avete presente Phil Selway dei Radiohead? Lo so, non c'entra niente ma è la prima cosa che mi è venuta in mente ascoltando questo disco. Insomma, Phil Selway. Per una vita dietro rullante e grancassa, poi appena i suoi compagni si distraggono scappa e va a chiudersi in studio per i fatti suoi. «Dov'è Phil, l'avete visto?»- «Boh sarà andato a comprare le birre». Quando però passano due mesi e del calvo percussionista (oltre che delle birre) nemmeno l'ombra, diventa chiaro a tutti che dev'essergli presa pure a lui la sindrome del disco solista. E tutti i fan a dire «che palle ci mancava solo lui: se siamo fortunati il nuovo dei Radiohead uscirà nel Tremila?». Poi però il buon Phil riemerge dagli inferi e dà alle stampe un album che lascia tutti a bocca aperta. Perché dove sta scritto che un batterista non possa imbracciare una chitarra e incidere pezzi propri senza doversi sentir dire dai suoi sodali che sono una merda. Ecco, questo è proprio quello che ha fatto Nelide Bandello, batterista d'area jazz che nel corso degli anni ha militato in varie formazioni (Lecrevisse, Il Generale Inverno, Bottin, Patrizia Laquidara, Rocky Wood) prima di mettersi in proprio. “Bar Tritolo” è il suo terzo lavoro dopo un album e un EP a nome “Leibniz”. Perché non è vero che i batteristi sono bravi solo a picchiare. Anzi, quelli più in gamba non solo riescono a conferire un tocco melodico al loro strumento ma riescono pure a mettere in fila delle belle composizioni, e la dimostrazione è quest'album strumentale che il Nostro ha inciso avvalendosi del contributo di altri musicisti di acclarata perizia quali Enrico Terragnoli (chitarra e podophono), Piero Bittolo Bon (sax alto, baritono e clarino) e Stefano Senni (basso). L'attitudine è quella - tutta jazz - all'improvvisazione ma il piglio è rock nel senso che gli undici solchi in questione hanno una solidità sconosciuta a certe latitudini. Da una parte la fluidità e i sofismi del jazz, dall'altra la concretezza e la praticità del rock. Pulito e sporco. Nero e bianco. Aristocrazia e popolino. Due opposti che s'attraggono e che danno come risultato un disco prelibato, scritto e improvvisato allo stesso tempo, pieno di rimandi ad ascolti tra i più disparati e vario nello stile e nei riferimenti. Basta ascoltare due pezzi agli antipodi come Plot Device e Go Fish It per rendersene conto. Ma anche l'intro There Will Never Be Another Youth (che ai Radiohead fa pensare davvero) è un bel sentire, così come la claustrofobica Growl. Ma l'ampiezza della gamma sonora è confermata ad ogni successione. La contaminazione è l'elemento base. C'è il kraut-rock di Rev Donut, per dire, ma anche l'elettronica, cosa che in certi ambienti una volta poteva sembrare una bestemmia: accade in Svegliati, cazzo! e sembra un'esortazione a superare certi preconcetti. Ma c'è soprattutto quell'inafferrabilità di fondo che ti fa definire qualcosa per poi accorgerti che come l'hai definita non rende l'idea. Insomma, ascoltatelo. Magari alle sei del pomeriggio, in poltrona e con un bloody-mary in mano. Perché, come il bloody-mary, di roba da intenditori si tratta.
Articolo del
24/10/2014 -
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