Roberto Datti è di certo un autore funambolico, uno su cui vale la pena fare attenzione fin da adesso in modo tale da poterne seguire passo per passo una crescita che potrebbe anche rivelarsi assai incalzante nel prossimo quinquennio. Si tratta di un artista dall’interessante bagaglio tecnico, musicale, creativo e sonoro. Uno che ha molte idee e risorse insomma, ed anche tanta passione per il proprio progetto che già da un po’ di tempo continua a portare avanti con assoluta trasparenza e caparbietà. Scrive bene e questo è indubbio: è un punto fermo da non sottovalutare e gli fa sicuramente onore. Sa bene cosa voglia dire arrangiare ed ha bene in mente il concetto di essenzialità, minimalismo, è conscio del fatto che, se coltivato con sensibilità, pure il pop possa rivelarsi redditizio. Possiede un background notevole, una conoscenza non indifferente delle evoluzioni dei grandi maestri connazionali che, poeticamente parlando, lo hanno svezzato a partire dalla tenera età. In tutto ciò è anche molto vigile rispetto a quel che di buono gira nel panorama indipendente mondiale: sta costantemente sul pezzo. Ascolta e rispetta molto i suoi colleghi e prova, con passione, a dire la sua attraverso canzoni molto curiose. Se non altro cerca di proporre qualcosa di diverso dal solito, mischiando le carte e tentando, ove possibile, di stravolgere determinati schemi e strutture spesso e volentieri superate e superabili. Non segue troppo le tendenze del momento, anche se la sua scrittura e il suo sound risultano tutto sommato moderni. Non è indie. Non si avvale di espedienti prevedibili e a portata di mano: sa distinguere bene ciò che potrebbe essere valido da ciò che rischierebbe, invece, di apparire come pacchiano, artefatto.
E tuttavia i risultati sembrano dargli ragione. Dalle sue composizione si scorge un marchio di fabbrica ben delineato e coerente: nonostante ciò, nonostante un’impronta stilistica fortemente caratterizzata da elementi “sinistri” e surreali sui cui sembra giocare molto, Datti riesce comunque a fornire ai pezzi del proprio repertorio anche delle aperture imprevedibile ed inusuali eppure, in fin dei conti, efficaci. Molto efficaci verrebbe da dire, anche perché poi i suoi brani sono accessibili a tutti, sono brani morbidi che suonano bene, che entrano in testa con una rapidità allucinante senza però denotare sconcertanti connotazioni radiofoniche, tantomeno inclini al mainstream. Da alcuni mesi è fuori la sua produzione d’esordio. Si tratta di un grazioso, di uno sfizioso mini cd comprendente un sestetto di canzoni inedite. ”Diavolerie”, Von Datty se l’è autoprodotto e, nel corso delle registrazioni (supervisionate da Francesco Grammatico presso i DB Recording Studios di Tivoli Terme), si è avvalso del prezioso apporto artistico di numerosi amici e colleghi che, grazie al loro estro, hanno notevolmente contribuito a migliorare tracce già potenzialmente discrete in partenza. Ecco quindi servita una raccolta decisamente raffinata, di matrice acustica seppur capace di inglobare, qua e là, alcuni strumenti poco “artigianali”: si pensi al theremin di Eric Caldironi, ai synth curati da Giorgio Baldi e all’iPad centellinato dallo stesso autore. Una raccolta che pecca soltanto per il fatto di essere un po’ troppo corta: ventuno minuti circa la durata complessiva. Del resto ci può stare, specialmente se si considera che, come già anticipato, i pezzi in scaletta sono appena sei.
Che piega prendono allora questa canzoni? Cosa aspettarsi? Da aspettarsi c’è un po’ di tutto. D’altronde il disco si apre con la suggestiva title-track dal taglio alquanto ipnotico e con dei convincenti sussulti sonori che trovano nei sublimi fraseggi di sax di Primo Salvati il loro autentico culmine. La successiva Von ha invece un’aria molto più leggera e ludica, quasi fosse una sorta di filastrocca straniante cantata sopra una base musicale quasi completamente costituita dallo strimpellio di un ukulele. Più tagliente e sincopata invece Streghe, tenebrosa al punto giusto e perfettamente calzante, nelle musiche così come nelle sonorità, con quello che è il registro lessicale. Cronache Notturne ed Aiutami palesano un’emblematica – eppure poco stucchevole – malinconia di fondo: forse sono le due composizioni meno entusiasmanti e sorprendenti dell’Ep ma, in ogni caso, si lasciano ascoltare benissimo. Nouvelle Vague, infine, si staglia immediatamente grazie una chiave di lettura, ad un approccio piuttosto pregevole e retrò, proprio come suggerisce il titolo stesso. Ovviamente una descrizione così fulminea dei brani non potrà mai essere del tutto esauriente, però siamo comunque certi che finirà con l’invogliare i lettori ad approfondire maggiormente quello che si può considerare a tutti gli effetti un buon progetto. Un progetto puro ed onesto, che per essere apprezzato a dovere necessiterà tuttavia di una buona dose di pazienza e di rispetto. Peculiarità, queste, purtroppo sempre più labili e carenti nei confronti dei nuovi cantautori italiani, verso i quali regna ormai da un po’ di anni un’eccessiva – e del resto inspiegabile – diffidenza che bisogna iniziare ad accantonare. Si consiglia quindi di entrare nel rarefatto universo musicale di Von Datty per poi esplorarlo a fondo.
Articolo del
10/02/2013 -
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