Pino Scotto, Paul Di Anno, Corrosion Of Conformity: omaggiate e riverite, gente, perché sul biglietto da visita degli umbri Signs Preyer figurano opening act per questi ed altri grandissimi, il che già vi dovrebbe far capire che non stiamo parlando di quattro pischelletti che strimpellano così, perché non hanno nulla di meglio da fare. Il criminosissimo progetto Signs Preyer nasce nel 2006 da un’idea di Enrico Pietrantozzi e Corrado Giuliano: da subito i due pensano bene di prendere tutte le emozioni più estreme del vissuto umano, cucinarle con un metal aggressivo dal groove intossicante, e servirle ben calde con le atmosfere fantasmagoriche e fangose dei Down e, tanto per alzare la gradazione alcolica, una spruzzata di Black Label Society che non guasta mai. In inglese si direbbe “a hell of a sound”, in italiano non mi viene neanche il corrispettivo. L’opener ”Anger” in realtà non è lo specchio più fedele di questa bomba sonora, ma si fa comunque ricordare con i suoi chorus effettati molto alternative e moderni sovrapposti a un riffing aggressivo. A parlare per tutti è l’incedere travolgente di ”Bitch Witch” sopra l’urlo di una chitarra distortissima, molto simile a quello dell’ancor più “cattiva” ”It Comes Back Real”, con quel riff scarno che non può che richiamare certi pezzi da antologia dei Pantera. ”Just To Kill You”, costruita su una strofa tesa e trasudante rabbia e su un altro riff ringhioso, continua sulla falsariga delle precedenti, mentre la successiva ”Killer Instinct” (tanto per rimanere in tema) mette in secondo piano il groove per attestarsi su un andamento “alternative hard rock” semplicemente esplosivo. Assolo al tritolo per ”Painless Pain”, che ritorna al songwriting semplice e incisivo e al growl gutturale (Phil Anselmo, il cui ego non aveva certo bisogno di ulteriori rassicurazioni, ormai è più che un nume tutelare in quest’album). Dopo tanta adrenalina, sembra strano tirare il fiato con la lenta e melanconica ”Dark Soul” e la successiva ”Hell”. Ma non lasciatevi trarre in inganno: entrambi i brani, di fatto tra i migliori dell’album, tirano fuori tutta l’anima di tenebra della band, catturando la magia nera che permea i torpidi acquitrini del delta del Mississippi, in cui sono nati e sono diventati grandi Eyehategod, Soilent Green, Kingdom Of Sorrow, Corrosion Of Conformity, ovviamente Down, e potremmo andare avanti ad nauseam. Rombo di tuono finale con la rockeggiante title track, e applausi meritatissimi. Ben poche volte la locuzione “spacca di brutto” – inflazionata, snaturata e anche leggermente tamarrizzata, specie quando si parla di metal – trovò collocazione più azzeccata. Se i Signs Preyer passano dalle vostre parti, non fateveli sfuggire… A giudicare dall’album, chissà cosa sono in grado di combinare dal vivo. Attendiamo fiduciosi.
Articolo del
05/04/2012 -
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