“Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”.
Thomas Jefferson, “Dichiarazione unanime dei tredici Stati Uniti d’America", 1776
Qualcuno ha scritto che questo film racconta più la “ricerca”, che non la “felicità”. Nulla di più giusto per raccogliere in un pugno il primo lavoro di un italiano ad Hollywood dopo anni – se proprio vogliamo ricordarci Carlei, Faenza, Amurri. Un film che questa felicità la insegue “di corsa”, letteralmente con le gocce di sudore in fronte: la fisicità di Will Smith, infatti, costantemente scrutata dal trionfo di primissimi piani parassitari, dai campi medi che lo immortalano mentre sfreccia sudato ma pervicace fra autobus e cessi del metrò per una San Francisco metallica e un po’ triste, è imprescindibile per l’economia de "La ricerca della felicità" ed è sostanzialmente la vera unica protagonista della pellicola. Che, ovvio, ne fa un one man show. Ma un one man show di gran qualità nel quale, senza l’aiuto di un regista tecnicamente impeccabile anche se spesso furbescamente pomposo (ma non in questo caso, per fortuna), nulla sarebbe stato elegante com’è poi uscito fuori. Gabriele Muccino è stato infatti bravissimo a mettere a disposizione del miglior Will Smith mai visto fino ad oggi il suo personale stile “secco-mobile”, fatto di un’altalenante alternanza di sequenze placide ed altre sanguigne, di inquadrature fuori asse e di dettagli importanti ad una storia senza dubbio fritta e rivista ma sviluppata appunto in modo nuovo, fluido ed efficace. E, soprattutto, con tante piccole implicazioni che la issano di peso sopra la media di quel che c’arriva da Hollywood. “La ricerca della felicità” racconta infatti un pezzo della storia (vera) di Chris Gardner, giovane nero di San Francisco che sogna di fare il broker. Lo blocca nella fase più difficile della sua vita quando, abbandonato dalla moglie Thandie Newton e rimasto solo col figlio, senza soldi e con una specie di non-lavoro (deve piazzare dei costosissimi ed inutili scanner ossei negli ospedali) si fa in quattro per partecipare (e poi vincere) ad uno stage non retribuito presso una grossa società finanziaria. Si sa, l’happy ending è scontato e d’altronde dopo la sbornia di trailer, articoli e recensioni uno non va in sala per il finale – che non è poi il succo, ecco. Piuttosto, per quella progressiva ricerca (in senso attivo e dinamico, non c’è traccia di serendipity in questo film, anzi) della felicità fatta di difficoltà, di sonni fra i senzatetto, di lacrime e corse, corse e corse. Ma anche di momenti spassosi affidati in gran parte al piccolo Christopher/Jaden Smith, piccola rivelazione fosse solo per quei capelli. E’ infatti un film “progressivo”, che supplisce all’ennesimo panegirico sul sogno americano accumulando sequenza dopo sequenza argomenti che ne fanno, alla fine e a ben rifletterci, molto più di quel che è. A partire da quella piattaforma realistica che è senza dubbio frutto dell’imposizione del regista (e allora ecco i veri poveri a far la fila, un certo straniamento nell’ambientazione anni ’80, con attenzione a piccoli ma non invasivi rimandi come Reagan in tv). Per continuare con una messa a fuoco efficacissima di alcuni snodi dell’organizzazione americana – la spietatezza protestante, la rimozione della povertà dall’interesse pubblico, la centralità del lavoro – fino ad arrivare ad una riflessione (questa niente affatto scontata ed anzi vera cifra del film) su come questi fattori possano conciliarsi con la felicità che Thomas Jefferson ha messo nero su bianco nella Dichiarazione di Indipendenza quale uno degli imprescindibili diritti del cittadino americano. Ecco, allora, che quella vena di realismo, il buon lavoro di fotografia e di regia e, chiaramente, le vicissitudini di Gardner fanno decollare il film proprio in questo ossimoro visivo fra quanto è scritto su un pezzo di carta e quanto quella frase riesca a trovare realizzazione nella vita di tutti i giorni, e soprattutto di quei giorni lì, quegli anni ’80 in cui il mondo anglosassone contraeva ancor più il suo intervento nel sociale lasciando migliaia di persone allo sbando. Quel che ne esce è un film che, come molti altri, parte da tematiche generali piuttosto trite ma che, per la loro importanza ed universalità, riescono a rivitalizzarsi ogni volta che trovano una esecuzione nuova, in parte sconosciuta alla Hollywood di oggi, in parte merito del nostro Gabriele Muccino che guida noi europei oltre che alla ricerca della felicità, alla scoperta di un sogno americano che è tanto storicamente inquadrato quanto universalmente valido. Finalmente qualcosa di cui andare fieri.
Articolo del
15/01/2007 -
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