Sono trascorsi oltre tre anni da quando in America scoppiò quella crisi finanziaria che per la sua gravità è stata paragonata a quella del 1929-33 e i cui effetti sono tutt’altro che svaniti, soprattutto nel mondo occidentale. Molte però, nonostante il tempo trascorso, sono ancora le domande rimaste senza risposta sulle reali cause che l’hanno generata, ed è pertanto necessario, anzi doveroso, continuare ad indagare per far tesoro di quanto è successo e proiettarlo nel futuro, sperando di poter evitare gli errori commessi. Giovanni Pedone, che di economia se intende essendosi non solo laureato in economia ma specializzato a Londra in Finanza e Politica Economica, tenta di dipanare la nebbia che ancora avvolge molti aspetti di quella crisi, con un reportage in cui sceglie volutamente di non prendere posizione, ma di raccontare quella crisi attraverso le testimonianze raccolte prevalentemente nella middle class dell’America profonda e nella periferia dell’Europa rapidamente investita da quell’onda propagatasi dagli USA.
Il risultato è interessante in quanto gli intervistati sono molto eterogenei (professori universitari, scrittori, antropologi, economisti, nonché persone comuni che gli effetti della crisi l’hanno vissuta e continuano a viverla direttamente sulla loro pelle) e pertanto le analisi e le osservazioni raccolte forniscono angoli di osservazioni parziali ma necessari per ricostruire, o tentare di ricostruire, un quadro complessivo che ci aiuti a comprendere a fondo cosa ha reso tutto il mondo più instabile in questi ultimi tre anni. Così, da un punto di vista strettamente economico gli addetti ai lavori ci spiegano che molto della crisi è imputabile alla politica di de-regulation cominciata da Reagan e proseguita da Clinton, politica accompagnata da bassi tassi della Banca Centrale Americana, che ha permesso accesso al credito facile anche a quella middle class che per questo si è indebitata nel tempo, pur non avendo in realtà la possibilità di ripagare il credito preso a prestito (soprattutto per i mutui con cui acquistavano la propria casa) fino allo scoppio della bolla immobiliare.
Ma gli aspetti più interessanti del reportage sembrano essere quelli dei non addetti ai lavori: come ad esempio la sintesi del monsignor Hilary Franco della St. Augustin Church di New York, che attribuisce il motivo della crisi alla psicosi che si è creata per la quale le persone valgono per quello che hanno, e che più possiedono e più il mondo le apprezza. O la sintesi dell’antropologo Dipak Pant, il quale sottolinea come continuare a porsi come obiettivo la crescita del PIL significa dover aumentare costantemente la produzione, e per assorbire poi quella produzione è necessario creare bisogni artificiali e spingere le persone a consumare sempre di più, con un inevitabile senso di frustrazione sempre maggiore.
Insomma nel documentario troviamo molti buoni spunti di riflessione che speriamo vivamente servano davvero a far pensare per il futuro: perché è straziante vedere ex lavoratori della classe media recarsi alle mense dei poveri per un pasto caldo, umiliati ed imbarazzati. E’ doloroso vedere giovani ragazzi dormire in tenda ai margini delle città perché hanno perso la casa e vestirsi in camicia e cravatta per andare alla ricerca di un lavoro che non c’è ed essere almeno nel look credibili e non essere scambiati per barboni. E’ vergognoso che i grandi Stati Uniti siano sempre più simili al confinante Messico, ove una parte sempre più ristretta della popolazione detiene quote di ricchezza sempre maggiore. Ed è quindi auspicabile che l’Occidente e il mondo intero rimetta in discussione un modello di sviluppo che finora ha creato disuguaglianze e catastrofi che ci obbligano tutti ad un passo indietro.
VOTO: 3/5
Articolo del
05/11/2010 -
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