«… io so e non so perché lo faccio il teatro ma so che devo farlo, che devo e voglio farlo facendo entrare nel teatro tutto me stesso, uomo politico e no, civile e no, ideologo, poeta, musicista, attore, pagliaccio, amante, critico, me insomma, con quello che sono e penso di essere e quello che penso e credo sia vita. Poco so, ma quel poco lo dico…» C’è questa bellissima frase di Strehler che (fortunatamente) mi perseguita. Ce l’ho sempre in testa. Rimbomba quando sta nel suo habitat naturale, su un palco o su un bloc notes con appunti di regia e di sceneggiatura. E suona, ugualmente forte, quando faccio il critico. Basta solo sostituire qualche parola. In fondo il giochino è quasi speculare: come ho sempre detto, i miei articoli sono fortemente caratterizzati da me. Chiamatela volontà di abbattere la quarta parete, chiamatela un po’ come vi pare, ma il succo non cambia. Stranamente capita anche nelle interviste. E, nonostante possa sembrare un controsenso, credo che sia una cosa anche abbastanza comprensibile: ho la fortuna con la C maiuscola di scambiare due chiacchiere con artisti che stimo per i loro lavori. Di quei lavori, se ne parlo, c’è sempre qualche aspetto che mi colpisce, qualcosa su cui vorrei indagare. Ecco, in qualche modo, nella maggior parte delle mie interviste, le mie domande tendono ad essere quelle di un ascoltatore molto curioso, più che di un giornalista. Ma, d’altro canto, come ho detto, la quarta parete mi piace molto abbatterla, per cui il ruolo da ascoltatore può servire- spero- a rendere più interessante il frutto della chiacchierata. Frutto che- lo sapete già, ma repetita juvant- tendo a “sbucciare” il meno possibile.. Se cercate un buon motivo per leggere questa intervista qui, beh… è colta, visionaria, letteraria e duplice. E non per merito mio, sia ben chiaro. Se vorrete accomodarvi, come sempre, buona lettura. Come mai l’idea di un concept, considerando soprattutto che la scena attuale si basa sempre più spesso su singoli usa e getta? Guarda, parto da una premessa. Il mio album preferito, secondo me il più bello fra i miei, “In compagnia degli umani”, del 2012, fu quello che andò peggio. In quel momento pensai che con un disco “normale” non si andasse da nessuna parte, era come buttare un disco nello stagno. E quindi bisognava rilanciare, fare qualcosa di più, qualcosa che obbligasse l’ascoltatore ad un cambio di passo, a porsi in maniera diversa. Quindi non più una raccolta di canzoni, che è praticamente inutile su supporto fisico, e verrà sempre battuta da un ascolto digitale. Adesso, a me piacciono i concept, ma piacciono anche i dischi unitari dal punto di vista musicale, che abbiano un sound che ti faccia entrare dentro quando li ascolti.
Ed ho pensato che per riuscire a raggiungere questa unitarietà musicale, la soluzione era quella di fare, appunto, un concept. Essendo poi un appassionato di fumetti e di letteratura, ho voluto rilanciare facendo dei concept letterari, in questo “Un rifugio per la notte” bissa quanto era stato con “Lovecraft nel Polesine”. Questa operazione mi consentiva di fare un ulteriore passaggio: presentare il mio lavoro come un lavoro serio: quando firmai con la Sony, nel 2001, e poi passai alla Edel, un manager mi disse che non si capiva se fossi serio o se scherzassi, e questo atteggiamento è un limite, tutto italiano, nella percezione della musica cosiddetta leggera, già, evidentemente, dalla stessa definizione.
Non appena qualcuno fa dell’ironia, che è una cosa molto tipica in Inghilterra, dove sono nato: lo fa Morrissey, lo facevano i Kinks, gli Small Faces, Rod Stewart… chiunque, nel rock inglese, ha questa abitudine all’ironia. Ma se tu fai ironia non vuol dire che sia un giullare o che stai facendo delle burle. Non significa che si ride, è semplicemente un ulteriore modo di confrontarsi con la realtà.
E invece in Italia o sei serio, ed usi i paroloni, o fai demenzialità, come Elio e le Storie Tese o come Freak Antoni, che comunque era un grandissimo. Essendo questa la situazione di partenza, mi son detto “Sai cosa faccio? Mi propongo come estremamente intelligente e colto, e vediamo come cambia il vento”. Ed, in effetti, è stata una scelta che, nel mio piccolissimo ambito, mi ha premiato. Come hai detto tu, è un album tratto da una opera letteraria (che è “A lodging for the night”, di Robert Louis Stevenson, ndr). Il punto di contatto fra musica e letteratura, quindi se la forma canzone può essere un genere letterario a sé o se si avvicina di più alla poesia, dove lo troviamo? Ma in realtà un po’ tutto quello che hai detto. Personalmente ci sono stati vari momenti in cui ho realizzato che ci poteva essere una vicinanza fra questi mondi apparentemente diversi di esprimersi artisticamente. Il primo forse è stato quando ho ascoltato “The rime of the ancient mariner” degli Iron Maiden, che, soprattutto per chi negli anni ’80 cominciava con l’heavy metal, fu un momento fortissimo: caspita, un brano di tredici minuti basato su una ballata lirica dell’800, su una storia incredibile. E poi scopri che quella ballata è un capolavoro letterario, scopri che alcuni membrio dei Maiden sono laureati, e scopri che può esserci un rock intelligente, che ti apre altri spiragli su altri mondi, che può stimolare all’approfondimento di altre tematiche.
Ecco, questa cosa fu molto forte per me, allora. Io in genere apprezzo moltissimo le opere di “arte minore”, se vogliamo chiamarle così, come i fumetti, che però aprono mondi su arti maggiori, o comunque danno degli stimoli. Un altro momento fu quando realizzai che gli autori di musica classica, come Čajkovskij, Schubert, per andare ai rinascimentali, Dowland, Monteverdi, William Byrd o Luca Varenzio, erano anche autori di canzoni. Ecco, quando scoprì questa cosa andai quasi in corto circuito: venivo dal conservatorio, qua a Brescia, e non sapevo di questa cosa, mi avevano sempre fatto intendere la musica classica come più alta, più impegnata. E quando mi imbattei in questa scoperta, ed in questa dimensione, capii tutt’ad un tratto che il poeta, l’autore di canzoni, l’autore classico, il musicista, lo scrittore, potevano essere la stessa persona, c’era molta contiguità rispetto a quella che viene percepita dal grande pubblico. Hai quasi lanciato la prossima domanda, perché comunque insieme all’album c’è una graphic novel, un fumetto. Adesso magari mi sono fatto influenzare, eh… però mi è sembrato quasi che le canzoni dell’album procedessero come dei quadri del fumetto. Diciamo che è stato un film sonorizzato… Sì, è esattamente quello che volevo fare con Zograf, aka Sasa Rakezic. Sarà anche che c’avevo in mente i quadri di una esposizione di Musorgsky, che studiai al conservatorio e che, più in là, incontrai nella versione di Emerson, Lake and Palmer, dove c’era l’alternanza fra quadri e promenade. Questa formula mi è sempre piaciuta molto. Ed infatti anche in questo ultimo album, su Villon, avrei voluto inserire degli episodi strumentali che andassero anche a riprendere le promenade di Musorgsky. Alla fine, però, non mi soddisfacevano del tutto, e li abbiamo inseriti solamente nella versione digitale dell’album, sul Bandcamp di Snowdonia Dischi. Diciamo che l’idea era quella, sì. Poi è una cosa che capita molto spesso con Sasa: collaboriamo ormai da un po’ di anni, e l’immagine e la descrizione devono andare di pari passo con testo e musica, creare l’atmosfera insieme. Ecco, la mia idea di questo album è che il fruitore prenda il supporto fisico, lo apra, faccia scorrere le pagine, mentre dallo stereo passano le canzoni. E’ una cosa che mi ha sempre affascinato, e che mi riporta alla memoria ricordi felici, ecco… Come si è arrivati all’incastro di canzone e fumetto, e se le due cose sono andate di pari passo, o una delle due ha influenzato l’altra? Sasa è uno di quegli autori che lavora per conto proprio, è un classico autore di fumetti underground, uno che è stato scoperto da Robert Crumb, il papà della controcultura underground di San Francisco e della West Coast, uno che ha anche fatto le copertine per Jani Joplin. E Sasa, come Crumb e come tanti altri di quella scuola lì, lavora da solo: lui si scrive la storia, lui si disegna il fumetto, fa tutto lui. Quindi mi sono approcciato a lui ed a questo tipo di lavoro con molta attenzione, anche se siamo amici non volevo rompergli le scatole o cercare di ingabbiarlo in una dimensione che non è la sua. Mi ricordo che ne parlai parecchio con Riccardo Borsoni, il direttore della Scuola Internazionale Comics di Brescia, che aveva curato tutta la veste grafica di “Lovecraft nel Polesine”, il mio album precedente, il primo che ho fatto con Zograf.
Allora non sapevo bene come procedere, poi ragionando con Riccardo, decisi di procedere seguendo la “genesi” che adesso ti dico. Io parto con delle musiche, ne accumulo un po’, e poi ho la mia storia da raccontare. Quella storia ha vari momenti: c’è il momento in cui Tizio ammazza Caio, che è un pezzo violento, ed allora cerco fra le varie musiche che ho già. Appena ho trovato quella che si può adattare comincio a scrivere la strofa e ad incastrare. Quando, poi, ho una demo piano e voce di tutti i brani, la mando a Sasa, insieme con delle suggestioni grafiche (in questo caso erano delle immagini dell’abbigliamento quattrocentesco e della Parigi del ‘400, di Stevenson, di Villon, riflessioni sul gotico internazionale, prese da Internet). Facciamo così perché Sasa è una persona molto “istintiva”, è molto in contatto con la sua dimensione interiore, con la dimensione delle suggestioni e del sogno: gli è stato dato dall’Associazione dei Nativi Americani un totem, col nome di Dreamwatcher, Osservatore dei Sogni. Ed è davvero lui! Sasa è fissato con le visioni ipnagogiche, ha sempre disegnato con questa cifra stilistica molto sua, molto “balcanica”, quasi a metà fra oriente ed occidente nel tratto. Io cerco di dargli sempre suggestioni, di dare una traccia “solida” piuttosto labile, quando gli mando i pezzi non sto neanche a tradurglieli tutti, non voglio che faccia dei quadretti uguali alle canzoni.
Avendo queste mie suggestioni, lui comincia a lavorare. Ed in genere gli faccio fare davvero pochissime correzioni, nella maggior parte dei casi ci becca sempre. E’ fantastico lavorare con lui. Mi piacerebbe solo pagarlo meglio e fargli avere un po’ più di soddisfazioni con questa cosa. Lui poi è un autore importante, ha pubblicato libri dappertutto, ed ha inventato il ruolo del “graphic journalist”: adesso sono in tanti, ma lui è stato il primo. Quando c’era la guerra civile in Bosnia, lui, che era un tuo collega, un giornalista musicale, si è trovato, da persona normalissima, nel bel mezzo di un casino incredibile, fra bombardamenti, pulizia etnica e robe del genere. E si firma Aleksandar Zograf perché sembra più serbo, Sasa Rakezic, che è il suo vero nome, somigliava molto ad un nome da etnia musulmana minoritaria. E praticamente lui si è trovato in mezzo a questa situazione complicatissima. E per esorcizzare la situazione di ansia e di angoscia, dal momento che gli piacevano i fumetti, ha cominciato a scrivere e disegnare di quello che facevano lui e la sua ragazza, adesso sua moglie.
Scriveva di quello che gli capitava durante la giornata, e lo mandava, nonostante ritardi e difficoltà, qua e là, ai vari giornali. Da lì lo nota Crumb, e lo pubblica sulla sua rivista, Weirdo. Poi però fu una cosa che rimbalzò dappertutto perché lui era un giornalista “non invaded”, non allineato: non era al seguito di nessun esercito, non era portatore della visione di nessuno. Era una persona normale che raccontava il macello che stava succedendo. Da lì è cominciata la sua carriera, ed insieme a quella il concetto di “giornalista grafico”. Fantastico! Senti, qual è l’importanza di ridare voce e potenza ad un personaggio come François Villon, ad un animo terribilmente umano, capace di voli verticali di lirismo enorme, ma anche di azioni abbastanza basse? Guarda, è stato quasi un anticipatore di personaggi come Bukowski, per dirne uno: “La ballata della grassa Margot” è trucida, sporca. Un po’ come Marziale, se vogliamo. C’è questa dicotomia fra alto e basso che è un movimento tipico della commedia carnevalesca e della satira menippea, andando sui greci e sui romani. A me interessava molto questo aspetto qui. E mi colpì molto questo racconto di Stevenson, che ci fu fatto leggere dalla nostra insegnante di inglese al liceo. Ne rimasi totalmente folgorato, ha un incipit meraviglioso, gotico, oscuro, bellissimo. Diventa quasi un piano- sequenza: vedi Parigi dall’alto, sotto la neve, poi stringe su questa stamberga appoggiata al muro di un cimitero, che ospita una taverna clandestina, piena di questi personaggi al limite della società.
Ed in mezzo a loro c’è questo poeta- furfante che sta cercando una rima. Questa cosa qua mi mandò completamente fuori di testa, mi piacque tantissimo questa immagine, questo personaggio che stava lì in una situazione assolutamente precaria, che però stava componendo dei versi che avrebbero sfidato le epoche, e che secoli dopo sarebbero arrivati a noi. Mi colpì anche questo fatto, che questo personaggio era vero. C’è questa “fiction storica”, questo giocare con dei personaggi storici romanzandoli ed inserendo anche personaggi minori, che forse sono esistiti o forse no. E Stevenson fu il precursore di questa cosa. Stevenson era affascinato dalla duplicità dell’animo umano, il racconto da cui è tratto “Un rifugio per la notte” è un po’ un antipasto de “Lo strano caso del Dottor Jekyll e di Mr. Hyde”, e qui torniamo all’alto e al basso, al tema del doppio, a questo discorso carnevalesco del continuo rimescolamento.
E una storia che ne contiene dentro un’altra, che ne contiene dentro un’altra e così via. Questa cosa mi piacque tantissimo, è da quando avevo sedici anni che ce l’ho in testa. Hai parlato della duplicità di Villon. E, per quanto mi riguarda, ascoltando l’album, è un aspetto che hai restituito benissimo: ci sono pezzi alla Nick Cave& The Bad Seeds di “Murder Ballads” e “The firstborn is dead” o Tom Waits della “Trilogia di Frank”, ma ci sono anche ballate molto più delicate. Questa narrazione così “ondivaga”, diciamo, viene fuori dalla voglia di essere straniante (anche nei confronti del pubblico) o era un passaggio stilistico obbligato per descrivere la duplicità di Villon? Penso che sia stata una cosa abbastanza istintiva, di sicuro non mi metto a pensare all’effetto che può provocare. Io scrivo fondamentalmente per me, per una esigenza mia, e quello che faccio quando penso ad un qualcosa che devo suonare dal vivo e che devo far sentire dal vivo è cercare di tirare fuori qualcosa che non sia troppo pesante, che possa intrattenere e possa piacere. Non amo i discorsi che fanno alcuni… in Italia la sento molto nel teatro questa cosa, il dire “Il pubblico stasera uscirà spaccato in due, li ammazziamo!” e c’hanno in testa Artaud ed il teatro della violenza.
Ecco, questo atteggiamento non mi piace affatto: al pubblico non voglio far del male, non voglio neanche piegarlo necessariamente a riflessioni pesanti. Certo, devo dar degli spunti, ma fondamentalmente voglio che si diverta, che sia contento, che entri dentro un’atmosfera, dentro un qualcosa da vivere insieme. Non ho sicuramente pensieri di quel tipo, dello stimolo della riflessione straniante. No, la stesura è abbastanza istintiva. Riascoltando l’album ti posso dire che c’è una prima parte più vicina al cabaret tedesco, Vonnegut e Brecht, o Waits come hai detto tu. Probabilmente questo succede perché gli episodi narrati nella prima parte hanno delle ambientazioni e degli episodi più simili a quel mondo lì, penso a “L’opera da tre soldi”, a questi tre scampaforca riuniti in una taverna clandestina… insomma, siamo lì.
Anche “The beggar’s opera” di John Gay: è venuta fuori una veste musicale simile. Poi dopo ho voluto inserire anche due ballate di Villon, e lì chiaramente il passo rallenta e si apre un po’ di più la parte musicale, diventa più melodica e rarefatta. Poi il racconto diventa concettuale, si apre un dibattito filosofico fra Villon e questo Signore di Brisetout, e lì son diventato, probabilmente, più prog: “Carnevale” si muove in quella direzione, con un sacco di cambi ed il tempo dispari. Diciamo che sono delle suggestioni che seguono la narrazione. C’era un altro tema interessante. Ho letto con molta avidità l’introduzione all’album, e mi ha colpito abbastanza quando parlavi del contrasto che si viene a creare tra il pubblico e nel pubblico, soprattutto quando c’è il dialogo col Signore di Brisetout: lì è come la tragedia greca, quel “Non posso non oppormi ad una legge che sento ingiusta, ed a qualunque costo mi devo ribellare” di Antigone. Ed in realtà Villon è un personaggio che ha molto in comune con Medea, il pubblico in qualche modo si trova quasi a parteggiare per lui… Sicuramente! Ed infatti questa è stata un po’ la molla finale che mi ha spinto a proseguire nel raccontare questa storia. Quando ho pensato per la prima volta di parlare di questa storia, che a differenza di “Lovecraft nel Polesine”, che veniva da una leggenda metropolitana, è ispirata ad un’opera, ho pensato anche che avrei dovuto farlo, proprio per la sua natura, per benino, documentandomi, andando ad Edimburgo, leggendo, capendo. Volevo capire cosa avesse in testa Stevenson quando scrisse quel racconto, leggere il suo epistolario, cosa diceva ai suoi amici, che opinioni si scambiava.
Ed ho cominciato a guardare su internet, che è stato un gran colpo di fortuna: mi sono imbattuto in un sito fantastico, Robertlouisstevenson.org, in cui c’era tutto, non avevo bisogno di andare da nessuna parte. E’ un sito fatto talmente bene da avere là dentro tutto l’epistolario, tutte le opere e tutta la saggistica. Leggendo la saggistica pescai qualcosa riguardante questo racconto, che è veramente misconosciuto, è la sua prima opera. Ci trovai una cosa veramente stranissima, che era, guarda caso, la duplicità con cui Stevenson si approcciò a Villon. Il saggio era di Lucio De Capitani che, dopo essere entrati in contatto, mi spiegò un sacco di cose molto interessanti, che mi misero sulla buona strada. Praticamente, pochi mesi prima di scrivere “A lodging for the night”, Stevenson aveva scritto un saggio su Villon- Stevenson aveva la mamma francese, ed era particolarmente attento ai poeti francesi. In questo saggio maltrattò terribilmente Villon, col tipico atteggiamento vittoriano, ergendosi a paladino della morale, con robe del tipo “Questo poeta neanche tanto bravo, fondamentalmente insincero, fraudolento, con l’animo di un mendicante, farabutto, autore di efferati crimini…” insomma, si allineava, in modo abbastanza facile, alla morale comune dell’epoca.
Ecco, sei mesi dopo scrive questo racconto incredibile, in cui si tira completamente fuori dalla dimensione di giudizio morale- ed in questo sta la sua modernità incredibile- e lascia il lettore totalmente in mezzo al mare, senza nessun indirizzo, nessuna bussola, presentando Villon come protagonista del racconto. Un Villon che compie delle azioni scellerate, però difende anche il suo punto di vista, si spiega. E tu devi decidere da che parte stare, se dalla parte di Brisetout, che è un antipatico ed ipocrita moralista, ma che rappresenta il sentire comune della sua epoca, o dalla parte di Villon, un poveraccio che vive di espedienti, che ha alle spalle parecchi crimini, ma che alla fine è un po’ più simpatico. E questa è una cosa dirompente.
Fra l’altro, mi viene in mente adesso, ricorda molto un classico della cinematografia, che io adoro, che è “The Wicker Man”, che presenta la stessa situazione: un ispettore di polizia bigotto estremamente cattolico mandato su una isola dove sembra sia stata rapita una bambina, che si trova di fronte dei pagani, che risultano molto più simpatici- anche se sottilmente inquietanti e probabilmente criminali. E questo “campione della morale” che andrebbe accettato è estremamente antipatico, mentre gli altri sono tutto sommato simpatici. Quest’obbligo nello sviluppo del senso critico è la modernità di Stevenson: è come se ti prendesse, ti buttasse nell’acqua fredda e ti dicesse: “Nuota!”. Ed è di una attualità spaventosa, in una epoca di grandi moralizzatori da social. In “Tutti morimmo a stento” De Andrè aveva inciso una versione de “La ballata degli impiccati” rancorosa, schiumante di rabbia. Tu invece ne hai fatto una versione che è quasi una preghiera. Da dove viene questa differenza stilista e, prima ancora, letteraria? Guarda, ‘sta cosa di De Andrè l’ha notata Marco Franzoni, che è il direttore artistico di questo progetto, e che mi ha aiutato a limare tanti aspetti dell’album. Mi disse che c’era qualcosa di De Andrè in questa roba che stavo scrivendo. Ed io mi fermai a pensare, perché De Andrè non lo ascoltavo più da un bel po’.
Lo avevo “assorbito” da mio fratello, che lo ascoltava parecchio, io mi rimisi a riscoprirlo più tardi, con “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, “Rimini” e “La Buona Novella”. Quando Marco mi disse che c’era qualcosa di De Andrè, io mi rimisi ad ascoltarlo, andando a pescare “Geordie”, che è tratta da un brano rinascimentale, e che, essendo la musica rinascimentale una mia passione, mi ha aiutato a farla venire fuori: brani come “I lupi di Saint Denis” o “La ballata degli impiccati” hanno quelle progressioni di accordi lì, la strofa in minore ed il ritornello in maggiore, figurazioni tipiche di Monteverdi o Dowland. Nella “Ballata degli impiccati” di De Andrè c’è il titolo e c’è qualche suggestione, ma non è basata sulla poesia di Villon, come ho fatto io. Io mi sono mosso verso una operazione più filologica, se vogliamo: ho letto la ballata in italiano, poi in francese, ho letto tanta critica. Villon era incredibile perché, un po’ come un altro autore di ballate, un certo Bob Dylan, aveva quarantasette livelli di lettura: si può leggere “La ballata degli impiccati” in un modo e capire una cosa.
Poi si rilegge e si nota che c’è un accenno a questo, un accenno a quell’ altro, e va a scoprire delle altre cose. E tante di queste citazioni, di questi accenni sarcastici, come tutti quelli che lui inseriva nelle sue ballate, negli sono stati perduti. Ed entrando in questo gioco di incastri ho cercato di fare una traduzione che è un po’ un mix di tutte le varie traduzioni che ho trovato qua e là, cercando di metterci del mio ed adattando i versi alla mia metrica ed alla mia musica. Oltre a questo ho cercato di far emergere non solo le singole parole tradotte, ma anche quello che ci stava dietro. Forse più ne “La ballata delle dame di un tempo” che ne “La ballata degli impiccati”, però ho cercato di fare questo lavoro, di spiegare certe citazioni e certe metafore. Villon era davvero incredibile in questo, era un vero maramaldo, che si metteva a recitare le sue poesie ed a lanciare frecciate, facendo ridere qualcuno dell’ala sinistra del pubblico e facendo aggrottare la fronte a qualcuno dell’ala destra. Insomma, il meccanismo che metteva in scena era molto complesso. Sempre restando sul tema De Andrè, mi è piaciuta molto “Carnevale”. Dentro ci ho visto un paio di cose, la prima una sorta di ampliamento, di approfondimento di “Nella mia ora di libertà”. E poi ci ho visto una sorta di Tito del 1400. C’è questa ennesima dicotomia fra la legge pubblicamente accettata e la legge delle persone che vivono la loro precarietà… Guarda, De Andrè era, come tutti sanno, un grande estimatore di Brassens e di Brel. Ed in loro c’era tantissimo il rifarsi a Villon, addirittura Brassens fece una sua versione della “Ballata delle dame di un tempo”. E quindi questa tematica villonesca in De Andrè è assolutamente presente, nei brani che hai citato tu, come in altri brani. Sì, “Carnevale” è la chiave di lettura dell’album e della poetica di Villon, rilanciata da Stevenson senza commentare, ma lasciando intendere di essere molto colpito. Anche perché Stevenson era stato avviato a studi d’avvocato, ma mollò tutto perché era un bohemièn, gli piaceva bere ed aveva questa fascinazione per questi personaggi al limite. Ecco, questa comunione di tematiche c’è sicuramente. C’è qualche collega con cui ti sarebbe piaciuto raccontare Villon? Io ci avrei visto benissimo Morgan, ma sotto tutti i punti di vista, eh… Con Morgan avevamo lo stesso manager tanti anni fa in Sony, Enrico Romano, che era manager dei Bluvertigo. All’epoca feci anche da spalla ai Bluvertigo ed a Morgan da solo, per “Canzoni dell’appartamento”. Sono rimasto amico di Andy Fumagalli, abbiamo fatto altre cose insieme. Sì, sicuramente c’è una vicinanza, siamo dei glam- rocker tutti quanti, un po’ fighetti, ci piace Bowie.
Poi in realtà spesso faccio delle collaborazioni, in “Lovecraft nel Polesine” chiamai Giorgia Poli degli Scisma. E poi anche Andy Rourke degli Smiths, Marco Pirroni degli Adam& The Ants. Storicamente ho un po’ esagerato nelle collaborazioni. Anche questa volta avevo chiamato un po’ di persone, poi ho capito che non era il caso. Avevo parlato con Hugo Race, volevo che facesse l’interludio strumentale di cui parlavamo prima. Però, insomma, non sembrò molto convinto del progetto. Poi chiesi a Massimo Zamboni, che avevo conosciuto alla Contempo Records, ed incontrandolo in centro a Firenze, al negozio della Contempo, gli dissi che c’era “La morte di Thevenin” che avevo scritto quasi sui pezzi dei CCCP, non so se hai notato che c’è l’intro senza basso, che poi entra molto marcato nel ritornello, ed io c’avevo in testa “Militanz”… Sì, ho notato e, da vecchio fan dei CCCP, ho anche apprezzato. Perfetto! E poi c’è la parte giocosa del brano, quella un po’ da musical, che è una citazione di “Mi ami?”. Quindi pensavo che Massimo con ‘sta roba qua ci andasse a nozze. E invece mi disse che sì, il pezzo era bellissimo e tutto quanto, ma che per lui era troppo complicato, troppi accordi. Fu simpaticissimo, eh! Mi disse che non suona mai la chitarra a casa! Poi volevo chiedere a Ginevra Di Marco di duettare su un brano a due, ma ero già più in imbarazzo, perché non la conosco bene, ci saremo visti un po’ di volte a Firenze, ma non siamo entrati molto in confidenza.
E la cosa cadde anche lì. In realtà lo presi un po’ come un segnale, pensai che forse era finito il tempo di cercar di mettere dentro tutti ‘sti nomi, e che era arrivato il momento di concentrarmi a fare le cose io per bene. Ed infatti nel disco ci suono il basso in quasi tutti i brani, oltre al pianoforte ed alle tastiere, ed anche a tante chitarre. Mi piace pensare che sia un po’ il mio “Diamond Dogs”, che è il mio album preferito di David Bowie, oltretutto un concept anche quello, basato su “1984” di Orwell.
Con Bowie non poteva esserci una chiusura migliore. Anche perché effettivamente la domanda lo tocca, seppur di striscio. Tocca lui e tutto quello che ha rappresentato, nel suo essere papà e precursore di una fetta enorme della musica del secondo ‘900… Guarda, alle feste della Contempo ci si incontrava, con tutti gli ex CSI, con Garbo, con Adi Newton e tutti avevamo la passione comune di Bowie. Luca Urbani, Andra Chimenti, che ci ha fatto un disco tributo pazzesco. Tutti… … possiamo dire che Villon è stato una specie di rockstar ante litteram? Assolutamente sì. Come John Dowland, li vedo molto simili. Dowland era un musicista, più che un poeta, autore di ballate come Villon. E come Villon era un po’ una mezza canaglia, ed ebbe un sacco di vicissitudini. Li avvicino molto, e sono assolutamente due rocker quattrocenteschi.
Articolo del
10/08/2020 -
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